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Prima di 1917, cinque meraviglie visive degli ultimi dieci anni di cinema

Da Avatar a Mad Max: Fury Road, ecco i film che ci hanno lasciato a bocca aperta nel decennio appena trascorso

1917

24.01.2020 - Autore: Marco Triolo
C'è una linea molto sottile, al cinema, che divide i capolavori dai “gimmick”, i trucchi visivi che ci fanno restare a bocca aperta, ma che possono anche distrarci dal fatto che ciò che stiamo vedendo non è realmente eccezionale. I registi che sanno cavalcare questa linea al meglio realizzano dei film che dividono invariabilmente il pubblico tra chi li adora e chi li critica aspramente.
 
Aspettiamoci che succeda lo stesso con 1917, il nuovo film di Sam Mendes (candidato a 10 premi Oscar) che si inserisce in una tradizione di opere che, sfruttando gli avanzamenti tecnologici, hanno tentato di raccontare una storia completamente in piano sequenza. È stato fatto da Alfred Hitchcock (Nodo alla gola), da Aleksandr Sokurov (Arca russa) e da Alejandro G. Iñárritu (Birdman), per citarne alcuni. Ovviamente nessuno di questi ha applicato il concetto a un film di guerra dalla messa in scena complicata come questo. Altrettanto ovviamente, l'evoluzione del digitale permette cose che sarebbero state impossibili solo una decina di anni fa, ad esempio la possibilità di fondere tra loro diversi piani sequenza in maniera impercettibile, per farli sembrare una cosa sola.

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Comunque sia, 1917, piaccia o meno, verrà ricordato come uno dei film più rilevanti di questo nuovo decennio, in termini visivi. Ma quali sono stati i precedenti del decennio appena trascorso? Andiamo a scoprire cinque film che, come quello di Mendes, hanno alzato la posta in gioco dello spettacolo cinematografico, lasciandoci di stucco e mostrandoci mondi che non avevamo nemmeno mai sognato.

 
 
Ecco il perfetto caso di un film che, senza il reparto visivo, non sarebbe stato altrettanto memorabile. James Cameron ha sempre spinto in là i limiti di ciò che è mostrabile al cinema. Lo ha fatto con Terminator 2 e Titanic, lo ha rifatto – nella maniera più spettacolare – con Avatar. Mondi extraterrestri, alieni creati in digitale eppure fotorealistici, un'immersione totale in un universo altro, qualcosa di nuovo e a tratti incredibile. Peccato per una trama fin troppo stereotipata e lineare, che si rifà a Pocahontas e che, a dieci anni di distanza, ha impedito al film di essere salutato come un vero classico.

 
 
L'anno seguente ci ha pensato Christopher Nolan a lasciare il segno con un film che prende le suggestioni di Matrix e Paprika (quello di Satoshi Kon) – una tecnologia dà la possibilità di vivere i sogni come fossero un'altra realtà – e le fa esplodere in un blockbuster cervellotico. Tanti, troppi spiegoni nella prima parte, ma un secondo e terzo atto davvero incredibili, con un susseguirsi di idee visive, sia digitali che fisiche (il corridoio rotante è rimasto in testa agli spettatori quasi più della città che si avvolge su se stessa), impareggiabili.

 
 
Nel cinema dell'ultimo decennio e oltre, quando si sente il termine “piano sequenza” c'è spesso il suo zampino. Parliamo di Emmanuel Lubezki, direttore della fotografia che, da I figli degli uomini in poi, è diventato la figura di riferimento quando vuoi meravigliare il tuo pubblico. Citiamo I figli degli uomini non a caso: il film che includiamo qui è Gravity, sempre di Alfonso Cuarón. È stata una bella lotta con Roma, dello stesso regista, ma alla fine vince Gravity per come ha messo in scena in maniera inedita la lotta per la sopravvivenza di un'astronauta (Sandra Bullock) dispersa nell'orbita terrestre. Un'avventura mozzafiato, ricreata quasi tutta in un digitale ultra-realistico, che ha ridefinito l'estetica del cinema sulle esplorazioni spaziali (e infatti anche il Nolan di Interstellar ha dovuto prendere nota).

 
 
Ancora Lubezki, stavolta al servizio di Iñárritu. Potevamo scegliere Birdman (indovinate? Stessi autori), ma Revenant è più memorabile, perché non si fonda interamente su un solo trucchetto. Iñárritu (odioso, arrogante, quello che volete) usa tutte le armi a sua disposizione per farci cadere la mascella. C'è un piano sequenza talmente elaborato da essere francamente impossibile (la macchina da presa “cade” da un cavallo ma poi torna in gioco), c'è il duello uomo-animale più agghiacciante della storia recente, ci sono scenari che tolgono letteralmente il fiato (e per i quali il regista ha sacrificato i rapporti con troupe e cast pur di raggiungere luoghi sperduti e inospitali). Un film totale, anche difficile da rivedere per questo. Ma dal punto di vista visivo non gli si può dire davvero nulla.
 

 
 
Concludiamo con uno dei più grandi film del decennio. A 70 anni, George Miller si ritrovò a dover girare il quarto Mad Max non nella sua Australia, ma in Namibia, in quanto piogge improvvise avevano trasformato l'Outback in un giardino. Fury Road è un lungo inseguimento su quattro ruote, come già lo fu Interceptor – Il guerriero della strada, ma ancora più in grande. Tra veicoli compositi, stunt fisici come non se ne vedevano da un bel pezzo e gli scenari del deserto della Namibia, di una bellezza sconvolgente, il film galoppa verso un finale epico, attraversando morte, devastazione e persino la tempesta di sabbia definitiva. Un'esperienza estenuante ed esaltante allo stesso tempo.