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The Children Act - Il verdetto, la recensione del nuovo film con Emma Thompson

La crisi di coscienza, la legge contro la religione. Analogie e differenze con il Frank Galvin interpretato da Paul Newman

Thompson

09.10.2018 - Autore: Gian Luca Pisacane
Due processi, due tribunali. Due verdetti. L’analogia l’hanno creata i titolisti italiani, aggiungendo all’originale (The Children Act) Il verdetto. E, a pochi giorni dal decennale della morte di Paul Newman, torna alla mente il film omonimo del 1982. Lui interpretava un avvocato di Boston in cerca di redenzione, schiacciato dall’alcool e dal peso della vita. Il caso di una donna finita in coma dopo un’anestesia sbagliata lo scuoteva dal suo torpore.

Un uomo solo contro la malasanità, i demoni del passato contro l’incalzare del presente, e la volontà di andare avanti. The Children Act (lo chiameremo così per non creare confusione, ma in sala è The Children Act - Il verdetto) narra invece di un giudice, di una signora di ferro. Ma il campo di battaglia è sempre lo stesso. Lei si occupa di diritto di famiglia, e si trova a dover scegliere tra il volere dell’ospedale e quello del paziente. Un ragazzo di diciassette anni, fervente testimone di Geova, rifiuta le trasfusioni di sangue, e rischia di morire. La legge sfida la religione.



Ad accomunare le due storie sono i protagonisti. All’apparenza possono sembrare lontani: lei vive tra gli agi e ha un’ottima posizione in società, lui dormiva in ufficio e non era quasi mai sobrio. Ad avvicinarli è un’esistenza che sta andando in pezzi. Lei ha un matrimonio ormai al capolinea, ha consacrato ogni momento della giornata al lavoro. Il marito si sente un fantasma, non riesce più neanche a sfiorare la moglie, perché si sottrae. In qualche modo sia Frank Galvin (Newman) che Fiona Maye (un’ottima Emma Thompson) sono figure crepuscolari, ombre che hanno dimenticato che cosa significa essere amati. Galvin si stordiva con l’alcool, Maye divora codici e arringhe, aspettando la notte per poter riposare.

Entrambe le vicende hanno la loro svolta in aula, tra una deposizione e un rinvio. Ma il vero palcoscenico è la quotidianità, la riscoperta di se stessi. La disperazione lascia il posto alla speranza, la giustizia fa battere il cuore. Significa prendersi cura degli altri, e allo stesso tempo risvegliare la propria coscienza.



Nel 1982 dietro la macchina da presa c’era Sidney Lumet, maestro nell’immortalare ogni espressione di un ispirato Newman. In The Children Act c’è Richard Eyre, spesso indicato come uno dei registi che hanno portato alla rinascita il cinema britannico. Forse si esagera, ma bisogna riconoscergli un indubbio talento nella direzione degli attori. In Diario di uno scandalo c’erano (magnifiche) Judi Dench e Cate Blanchett, che prestavano il volto a due figure femminili tormentate. Si respingevano per poi attrarsi, sullo sfondo il sistema scolastico inglese. Ma forse l’opera migliore di Eyre resta L’ambizione di James Penfield, il ritratto cinico di una società senza scrupoli, dove le persone non hanno valore in quanto tali, ma solo per quello che “valgono”. La sceneggiatura era di Ian McEwan, che ha ispirato anche The Children Act con il suo romanzo La ballata di Adam Henry. Dalla penna al grande schermo, i suoi affreschi non smettono mai di emozionare.