

Blood Story

Owen è un ragazzino che viene costantemente tormentato dai bulli a scuola, e si sente un outsider. Un giorno, fa conoscenza con Abby, la sua nuova vicina di casa. Una ragazzina strana e diversa, come lui. Ma sotto c'è ben di più: Abby è in realtà una vampira...

Bastano un paio di minuti per superare quella sensazione di scetticismo che ci allontana dal remake istantaneo di “Lasciami entrare”. Quelle prime sequenze iniziali dalle quali è chiaro che Matt Reeves – regista che già aveva lasciato il segno con “Cloverfield” – ha ancora tanto talento nel suo serbatoio creativo.
Grazie alla sua passione per il film di Tomas Alfredson e per il romanzo di John Lindqvist (edito in Italia da Marsilio), Reeves mette in scena un remake che sta all'originale come “Vanilla Sky” stava ad “Apri gli occhi”:
raccontando la medesima storia, con scene che si susseguono più o meno
nello stesso ordine (ad eccezione dell'apertura del film), il regista
riesce a trovare una sua strada narrativa elaborando anche sequenze
sorprendenti.
“Blood Story”
è un film che cerca di essere meno freddo del precedente e puntare più
sul ritmo, tagliando diverse sottotrame come le varie storie del
vicinato che vengono semplificate. È anche merito di un cast in stato di grazia tra giovani talenti e celebri caratteristi come Richard Jenkins ed Elias Koteas perfetti per far schizzare in alto il termometro della tensione.
E se gli effetti speciali in digitale usati per gli agguati vampireschi
non convincono del tutto, sequenze come l'incidente stradale filmato in
soggettiva dall'interno di un'auto lasciano a bocca aperta. Rimanendo
comunque contrari ai remake istantanei, diamo una possibilità a “Let Me In”
(questo il titolo originale), rifacimento che da operazione commerciale
(perfetta per un'audience americana sempre più stanca di sforzarsi a
leggere i sottotitoli) si trasforma in una pellicola girata con talento e sincerità.
Matt Reeves si confronta col materiale originale come se stesse adattando Shakespeare (tant'è che il bardo viene citato costantemente nel corso del film) e
strizza anche l'occhio allo Spielberg più dark, raccontando quanto
l'infanzia possa essere dolorosa, senza però negarci tensione ed
emozioni.