Gianfranco Rosi racconta il dramma delle tragedie in mare, l’eroismo dell’accoglienza e lo scheletro 'carnoso' - perché fatto soprattutto di volti e gesti - di un’isola speciale come quella di Lampedusa. Per farlo però il regista appena eletto vincitore del Nastro d'argento Speciale, scende di un livello rispetto alla tradizionale narrazione mediatica degli sbarchi. Quando lo fa, oltre la linea dell’orizzonte trova l’orrore dei corpi intrappolati nella stiva di un’imbarcazione fatiscente e la claustrofobia di un viaggio le cui ragioni fanno rima esclusiva con la parola disperazione.
C’è anche altro ovviamente. Anche se voler cercare uno schema o una tesi in questo film è un’operazione sbagliata. Perché si tratta di un documentario di osservazione con un’anima tutta sua che si affianca all’iconografia tradizionale della tragedia con un nuovo calore e che con mano ferma costruisce un punto di vista unico sull’isola più nota d’Italia. La Lampedusa di Rosi è un luogo speciale dove esiste una separazione netta tra l’inferno del mare e la quotidianità di chi semplicemente vive. Un microcosmo chiuso come quello di Sacro GRA, fatto di mal di pancia, improvvisi rapimenti estetici e accenti umani arrotati che sembrano fatti solo per raccontare la gioia e invece sono costretti loro malgrado a parlare tonalità di orrore. E di persone.
Sono ancora una volta gli esseri umani che trasportano lo spettatore da un tema all’altro. Come avviene per Pietro Bartolo, direttore sanitario della Asl locale che da trent’anni assiste ogni singolo sbarco e si occupa di curare i migranti sbarcati sull’isola. Eppure in Fuocoammare c’è anche la quotidianità e lo spirito essenzialmente marittimo di un posto dove tutto ha a che fare con l’acqua e la natura. Ed è in qualche modo questo fattore che costringe a dire con maggiore chiarezza chi sei.
Lo sa Rosi, che lascia quindi libero spazio ai caratteri minori – scovati ancora una volta con incredibile talento – e che sembrano produrre luce e umanità di per sé. E poi al pragmatismo della tecnologia, alla solidità di mezzi di salvataggio che per un attimo si appellano allo standard del protocollo per dare un senso a tanta follia. E ancora i volti dei ‘salvati’, le sagome dei ‘sommersi’, mare ovunque ti giri, la cinepresa che ondeggia quando è su una barca come se regista e isola si fossero fusi insieme in una prova cinematografica inclassificabile e potente.
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Fuocoammare – La nostra recensione
La tragedia degli sbarchi senza il peso di alcuna retorica e ricca invece dell’umanità tipicamente ‘rosiana’
17.02.2016 - Autore: Alessia Laudati (Nexta)