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Loving Pablo: Javier Bardem e Penelope Cruz spaventati dal loro stesso Escobar

La coppia spagnola racconta il film Fuori Concorso alla Mostra di Cinema di Venezia.

07.09.2017 - Autore: Mattia Pasquini, da Venezia (Nexta)
Si sono imposti di non guardare Narcos e le altre produzioni incentrate sul più temuto signore della droga al mondo, Pablo Escobar, per raccontarne l'ascesa e la fine nel Loving Pablo di Fernando León De Aranoa presentato Fuori Concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, ma Penelope Cruz e il marito Javier Bardem - qui anche produttore - sono perfetti per dar vita al temibile Patròn e alla sua amante, la più famosa giornalista della Colombia, Virginia Vallejo, al cui libro Amando a pablo, odiando a escobar ci si è ispirati per il film.

Perché negli ultimi anni sembra esserci tanto interesse per un personaggio così negativo?
Javier Bardem: È molto umano avere interesse per le personalità che hanno cambiato la storia, anche quelle malvage. Escobar ha praticamente inventato il narcotraffico, un businness enorme che ha causato dolori infiniti. Come attore è stato altrettanto interessante esplorare ciò che poteva avere in mente.

È stato difficile? Cosa avete capito e imparato da questo lavoro?
JB: La mia lettura è stata che alla base di tutto ci fosse il bisogno di sentirsi rispettato. Lui era riuscito a incutere paura, a mettere in ginocchio l'intera società, ma non ad ottenere il rispetto della gente. E questo lo ha fatto impazzire. Riguardo al resto, sicuramente ho imparato a stare dalla parte 'buona' delle cose.`

La serie TV vi ha aiutato in questo senso?
JB: No, perché abbiamo evitato di guardarla e mentre cercavamo di creare la nostra storia. Semmai, la svolta è stata quando è apparso il libro della Vallejo. Era inquietante rappresentare un padre tanto amoroso e insieme una persona capace di suscitare un tale terrore alle altre famiglie. Una contraddizione tremenda che come attore non potevo giudicare, dovendo diventare il personaggio. In questo caso ho atteso molti anni
per poter trovare una lettura che contenesse quella contraddizione e gli elementi che lo rendevano un essere umano, non per umanizzarlo quanto per comprenderlo meglio. E per capire meglio chi siamo. Alla fine della giornata, però, finito di lavorare, lo lasciavo sul set e andavo a casa. Era tanto spiacevole lui quanto stimolante interpretarlo.

Quanto ha aiutato la trasformazione fisica?
JB: È stata importante, pero non è stata la parte più importante del lavoro. Dopo averne fatti tre, credo che per interpretare un personaggio reale ci si debba avvicinare a quel profilo. Nel caso di Escobar, il peso e il fisico aiutavano a comprenderne la gravità, il suo contatto con il territorio e con quelli che lo circondavano. E soprattutto aiutava me a a capire da dove venisse quella energia, uno dei motivi per cui avevo sempre voluto interpretarlo. Aveva un ritmo interno e esterno molto debole in un certo senso, lento, anche passivo, ma in suo nome si compivano gesta atroci. Non a caso il suo animale preferito era l'ippototamo, un animale con i pupazzi del quale si fanno giocare i bambini, ma che in realtà è il più feroce di tutta l'Africa. Un riferimento preciso, in questo senso, l'abbiamo inserito nella scena della piscina, con Escobar in acqua fino agli occhi…

E per te, come è stato rendere il punto di vista della donna al centro del racconto?
Penelope Cruz: Interpretare qualcuno di vivente è sempre una sfida. Io non conoscevo Virginia, ma ho letto e visto molto materiale su di lei per capire come funzionasse una testa tanto diversa dalla mia. Anche perché era importante che partissimo da lei per affrontare un tema tanto delicato e che ha provocato tanta sofferenza. Io credo che l'obbiettivo sia stato raggiunto, sin dalla sceneggiatura. Senza indulgere in violenza gratuita e senza raccontare in maniera troppo 'attraente' il mondo dei narcos. Lo osserviamo con gli occhi di Virginia, probabilmente inconsapevole del mondo in cui stava entrando, attratta dal potere e dal magnetismo di questo uomo, ma senza sapere fino a che punto sarebbe stata in pericolo.

Che effetto ti ha fatto vedere Javier con un trucco tanto accentuato?
PC: Mi spaventava molto, ma più per l'energia di cui parlava che per l'aspetto fisico, i baffi o i capelli ricci. A quelli mi ero abituata, ma quel tipo di energia, crudele, aggressiva, mi stava facendo impazzire. Al punto che dopo 3 o 4 settimane contavo i giorni che mancavano ancora… Non è stata un'esperienza brutta, ma non vedevo lui, vedevo il suo personaggio. Questo mi aiutava come Virginia, perché mi dava la nausea. Una reazione molto forte, ma necessaria per quello che dovevamo fare. È stato impressionante, specialmente nella scena della Cattedrale, da lui scelta come carcere per un anno, in cui lei gli chiede aiuto. Avevo molta paura di quella scena, e quello è stato il momento in cui ho inziato a contare i giorni che mancavano alla fine di quella tortura.

Avete girato in Colombia?
JB: Si, era molto importante poter essere lì, circondati da attori, comparse e crew colombiani. Ha dato un senso di verità maggiore al tutto. Abbiamo voluto approcciarci a questo lavoro con grande rispetto, per la storia e la cultura della Nazione. Ci hanno davvero dato tutto quello che ci serviva per raggiungere il nostro obbiettivo.

Il regista ha sottolineato il lavoro che entrambi avete fatto per imparare l'accento colombiano, ma perché il film è girato in inglese?
JB: In quanto produttore sarebbe stato difficile raggiungere il budget senza farlo. È una legge di mercato molto stringente, dipende da come si fruiscono i film nel mondo, anche doppiati. A un certo punto abbiamo pensato se continuare o no, ma è un veicolo per farlo arrivare a più gente. È stato ideale girare nella sua stessa lingua, fino a dove possibile. La storia di Escobar e di come cambiò il mondo, in peggio, non aveva ancora avuto un suo film, credevamo se la meritasse. E che dovessimo reallizzarla senza trascurare niente.