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I vent'anni de Il grande Lebowski, dieci ragioni per rivedere il cult dei Coen

Un'epopea a misura umana, surreale, esilarante eppure amara nella sua critica sociale. Ecco i motivi per cui ancora oggi Il grande Lebowski è un capolavoro imperdibile

Il grande Lebowski

06.03.2018 - Autore: Marco Triolo (Nexta)
A chi con questo film è cresciuto, è maturato e ha scoperto la passione per il cinema e soprattutto per il cinema dei Fratelli Coen, sembrerà impossibile che siano passati vent'anni. Ma è così: Il grande Lebowski usciva in USA il 6 marzo 1998. Un capolavoro di comicità d'autore, infarcito di tutto l'umorismo e le situazioni surreali e sopra le righe che negli anni sono diventati marchio di fabbrica dei registi. Un cult vero e genuino, uno di quei film che tutti, in quegli anni, DOVEVANO aver visto per partecipare alle conversazioni a scuola o sul lavoro. Come nel caso di Pulp Fiction, i suoi dialoghi erano entrati nel lessico, i suoi personaggi erano esempi di vita da non seguire, eppure erano anche nostri amici, li sentivamo vicini e li amavamo.
 
Sono passati vent'anni, è vero, ma Il grande Lebowski è ancora grande. Volete dieci ragioni per recuperarlo? Ve ne servono davvero così tante? E va bene, ci sforzeremo di darvele, anche se in realtà ne basterebbe una sola, e si chiama John Goodman. Ma dopo averle lette, filate a rivederlo per festeggiare degnamente questo anniversario sorseggiando un White Russian...

 
A volte si incontra un uomo. Basta il monologo introduttivo recitato dallo Straniero di Sam Elliott per capire di trovarci di fronte a un pezzo di storia del cinema. La narrazione dei Coen è “qualcos'altro”, qualcosa di inaspettato e spiazzante, eppure capace di abbracciarci anche nei momenti più bislacchi. Come un intro western a un film che di western ha ben poco. La voce di un cowboy che blatera di Los Angeles (pronunciato “Los Angheles”), la città degli angeli. “A me non sembrava che il nome le si addicesse molto”, ammette lo Straniero. “Però posso dirvi una cosa: dopo aver visto Los Angeles e vissuto la storia che sto per raccontarvi, be', penso d'aver visto quanto di più stupefacente si possa vedere in tutti quegli altri posti, e in tutto il mondo”.

 
L'eroe più pigro al mondo. Quando vediamo per la prima volta Jeffrey “Drugo” Lebowski, lo troviamo mentre fa acquisti al minimarket rigorosamente in vestaglia e ciabatte. Non esattamente l'immagine dell'eroe cinematografico per eccellenza. Jeff Bridges, “The Dude”, è già un'icona in quei primissimi attimi e riflette alla perfezione lo stile dei Coen, la loro spinta a ribaltare i cliché del cinema americano. Creando nuovi simboli per una generazione smaliziata e post-moderna, dove chiunque, anche l'ultimo dei nullafacenti adagiato sulla sua poltrona con una canna accesa, può essere l'eroe di una saga immortale. E infatti il personaggio di The Dude ha ispirato addirittura una religione, il Dudeism, impegnata a diffonderne il verbo nel mondo.

 
Il tappeto (dava un tono alla stanza). Ci può essere MacGuffin più cretino di questo? Eppure quel tappeto è diventato uno dei simboli del film, una delle sue trovate più memorabili. Quel tappeto che Drugo non recupererà mai.

 
John Goodman. Come dicevamo in apertura, forse la ragione principale per recuperare Il grande Lebowski è l'incredibile interpretazione di John Goodman. Il suo Walter Sobchak, un paranoico reduce del Vietnam con problemi nella gestione della rabbia, affetto da sindrome da stress post-traumatico e fissato con il bowling, è dichiaratamente un omaggio a John Milius, sceneggiatore di Apocalypse Now nonché regista di Un mercoledì da leoni, Conan il Barbaro e Alba rossa. Un personaggio tragico calato in una realtà che non comprende e affiancato da amici che sono l'opposto di lui. E per questo esilarante.

 
Jesus. Il grande Lebowski è un capolavoro anche per come riesce a infilare una serie di personaggi leggendari nelle pieghe della sua trama principale. Come ad esempio Jesus, il tamarrissimo e molesto giocatore di bowling interpretato da John Turturro. Un personaggio che non ha alcun peso nella narrazione, ma talmente memorabile che da anni si parla di uno spin-off a lui dedicato.

 
I nichilisti. Peter Stormare, Flea dei Red Hot Chili Peppers e Torsten Voges sono un altro esempio della suddetta capacità dei Coen di distillare il genio nella bottiglia. Tre personaggi misteriosi, che dovrebbero essere minacciosi ma alla fine sono solo altri idioti in una sinfonia di idiozia e inadeguatezza. Stormare è il più indimenticabile, un ex attore porno (lo vediamo persino in un segmento insieme alla pornodiva Asia Carrera, che ricostruisce con perizia lo stile dei porno anni '90), ex membro di una band tedesca che fa il verso ai Kraftwerk (gli Autobahn. Straordinaria la copertina del loro disco), alla ricerca di una scorciatoia per fare un po' di soldi. Ma troppo cretino per farcela.

 
What Condition My Condition Was In. Non abbiamo menzionato il fatto che Il grande Lebowski è ambientato nel 1991, durante la prima guerra nel golfo. Inevitabile che Saddam Hussein faccia la sua comparsa in una delirante sequenza onirica, in cui vediamo Drugo fluttuare tra gambe di ballerine, sfuggire a forbici giganti e danzare nel mezzo di una coreografia a tema bowling che anticipa il gusto scenografico da Hollywood classica di Ave, Cesare. Il tutto scandito dalle note psichedeliche di "Just Dropped In (To See What Condition My Condition Was In)" di Kenny Rogers and the First Edition.

 
I gravi pericoli del metodo induttivo. Una delle più aspre critiche sociali del film, attualissima ancora oggi in questo clima politico intollerante, è quella che punta all'interpretazione della realtà fatta dalla persona media. I personaggi del film cadono in un vortice di sfortuna a causa delle loro stesse decisioni infelici, determinate dalla tendenza a dare sempre tutto per scontato. Drugo e Walter non usano mai il metodo deduttivo, ma sempre quello induttivo, passando dal particolare al generale dando sempre per scontati troppi dettagli, che infine si rivelano sbagliati. Come ad esempio quando arrivano alla conclusione che Bunny, la moglie del grande Lebowski, abbia finto il suo stesso rapimento. È questa continua generalizzazione, questo affidarsi a scorciatoie logiche piene di buchi, a causare l'effetto domino che li trascina nel caos. Il tutto, ovviamente, ci fa morire dal ridere, ma alla fine della fiera è una riflessione amarissima sulla natura umana e su come non siamo mai in grado di imparare dai nostri errori.

 
Lingua originale. Un ottimo motivo per recuperare il film è vederlo in lingua originale. Non potrete mai apprezzare fino in fondo i deliri di Walter o l'attitudine ottusamente zen di Drugo se non sentirete le voci di John Goodman e Jeff Bridges.

 
Al diavolo, Drugo, andiamo al bowling. Una battuta pronunciata da Walter che poi è anche la sintesi di una commedia perfetta, che svicola quando possibile da ciò che ci aspettiamo, che la fa in barba al crescendo narrativo per nutrirsi di deviazioni tanto più divertenti quanto sono atroci e spietate nella loro folle banalità.
 
Vi basta? E ora dritti a rivedere Il grande Lebowski, che oltretutto è disponibile su Netflix!