Un giorno devi andare
Dolorose vicende familiari spingono Augusta, una giovane donna italiana, a mettere in discussione le certezze su cui aveva costruito la sua esistenza. Su una piccola barca e nell'immensità della natura amazzonica inizia un viaggio accompagnando suor Franca, un'amica della madre, nella sua missione presso i villaggi indios, scoprendo anche in questa terra remota i tentativi di conquista del mondo occidentale. Augusta decide così di proseguire il suo percorso lasciando la comunità italiana per andare a Manaus, dove vive in una favela. Qui, nell'incontro con la gente semplice del luogo, torna a percepire la forza atavica dell'istinto di vita, intraprendendo il "suo" viaggio fino ad isolarsi nella foresta, accogliendo il dolore e riscoprendo l'amore, nel corpo e nell'anima. In una dimensione in cui la natura assume un senso profetico, scandisce nuovi tempi e stabilisce priorità essenziali, Augusta affronta l'avventura della ricerca di se stessa, incarnando la questione universale del senso dell'esistenza umana.
Giorgio Diritti ci aveva convinti ed emozionati con L'uomo che verrà del 2009 (quando, al Festival di Roma, venne insignito del Gran Premio
della Giuria Marc'Aurelio D'argento), ed era da allora che lo
aspettavamo. Anche perché la genesi di questo film è durata ben più dei
circa tre mesi di riprese spesi tra Amazzonia e Trentino e le poche
anticipazioni ricevute non han fatto che aumentare la curiosità. Un giorno devi andare,
infatti, è stato – fatto eccezionale per un film italiano – scelto dal
Sundance di Robert Redford e, nonostante pare che le proiezioni non
siano state molto frequentate, ben recensito da testate importanti come
Variety e Hollywood Reporter.
Il viaggio della giovane Augusta (una espressiva e leggera Jasmine Trinca) nella Amazzonia brasiliana cambia lungo un film che si propone di penetrare via via sempre più in profondità nella sensibilità e nelle convinzioni dello spettatore.
Quella che inizialmente sembra una fuga da sé, dal trauma della
maternità negata, da un Trentino e una famiglia troppo opprimenti, si
sviluppa nella scoperta di una realtà diversa. Che non è quella delle
missioni, di una religiosità che continua a avere modalità troppo
prossime a quelle imposte dalla cultura natia, ma quella di un
'sottosuolo' ricco oltre ogni immaginazione. Le favelas, i disperati ai
margini del mondo, risvegliano emozioni e riaccendono dolori ai quali
solo una definitiva fuga, catartica e finalmente liberatoria, può
sperare di trovare uno spazio nella propria vita.
Musica e fotografia affascinanti conquistano, oltre alla fresca
emotività dell'interprete principale e dei suoi compagni di avventura,
eppure in questo scavo verso i valori e il senso della vita è proprio la
forma quella a suscitare le reazioni più contraddittorie. Forse
è la difficoltà di conciliare ritmi tanto lontani da noi con quelli
dell'oggetto film a rendere più ostica la partecipazione al riscatto di
questa giovane donna. Sicuramente per parteciparne e farne
spunto positivo per i propri ragionamenti bisognerà fare uno sforzo per
andare oltre una narrazione a tratti farraginosa e prolissa, e non sarà
facile.
di Mattia Pasquini