Fahrenheit 11/9

Fahrenheit 11/9

Uno sguardo provocatorio e sarcastico sull’epoca in cui viviamo. Dopo Fahrenheit 9/11, il vincitore della Palma d’Oro Michael Moore sposta la sua attenzione su un’altra significativa data, il 9 novembre 2016, giorno in cui Donald Trump è stato eletto 45esimo Presidente degli Stati Uniti. L’ultimo documentario di Michael Moore è un affresco liberale e anticonservatore che non prende di mira solo l’amministrazione degli Stati Uniti, ma anche le politiche dei Democratici e dei Repubblicani che hanno portato all’attuale situazione politica.

VALUTAZIONE FILM.IT
TITOLO ORIGINALE
Fahrenheit 11/9
GENERE
NAZIONE
Stati Uniti
REGIA
CAST
DISTRIBUZIONE
Lucky Red
DURATA
128 min.
USCITA CINEMA
22/10/2018
ANNO DI DISTRIBUZIONE
2018
di Mattia Pasquini

Qual è l'inizio della fine? Con Fahrenheit 11/9 Michael Moore cerca in qualche modo di rispondere a questo interrogativo. Un interrogativo dal quale il documentarista di Flint sembra ossessionato, tanto da averlo affrontato più volte, magari da punti di vista e in ambiti diversi, di volta in volta. Come in questo caso, che lo vede concentrarsi sul suo beneamato Donald Trump e tutto ciò che lo circonda, che la sua elezione implica e ha implicato, significa e potrebbe significare.

Come al solito, l'analisi procede per ampie volute. Rischiando di farci dimenticare il focus dell'opera, ma in compenso permettendoci di superare il pregiudizio di essere di fronte al mero tentativo di confermare una tesi di partenza (per molti, il motivo per il quale scegliere di vederlo). Non che Michael Moore sia del tutto disinteressato a ricordare quanto il suo Presidente sia il Male Assoluto o non ci già abbia abituato a vederlo procedere verso un obiettivo specifico con i suoi film, ma - come sempre, in questi - è nel percorso che si scoprono i panorami migliori. o peggiori.

Dopo una premessa storica volta a definire il contesto di riferimento e a presentarci il tanto atteso protagonista - sbeffeggiato come sempre (accompagnato dal 'Ridi pagliaccio' di Ruggero Leoncavallo) e raccontato anche attraverso aneddoti molto personali (come la puntata del The Roseanne Show del 1998 che li vide seduti insieme) - il film abbandona relativamente presto Trump, e per lunga parte del suo sviluppo, anche se paradossalmente per raccontarlo meglio. Per raccontare i motivi che hanno portato a far sì che Trump emergesse, trovasse terreno fertile e riuscisse in una impresa che molti avrebbero definito disperata. Molti, ma non lo stesso Moore, che in realtà ricorda senza particolare vanagloria la sua previsione del luglio 2016 nell'articolo di suo pugno "5 reasons why Trump will win".

Distratti, e ancora più attenti, ci troviamo così nella sezione più interessante di questo - ancora una volta - troppo prolisso intervento, alle prese con i 'Real Americans' di Michigan e MidWest, con il clamoroso e criminale scandalo idrico della stessa Flint, i movimenti giovanili seguiti al massacro di Parkland e la loro 'March for Our Lives', con il manifesto e truffaldino boicottaggio di Bernie Sanders, lo sciopero degli insegnanti e la smaccata strategia del Villain predestinato, solo per scoprire che la colpa di tutto fu di. Gwen Stefani!

Razzismo, clientelismo, misoginia, manipolazione, tradimento, offese: niente di tutto questo ha impedito alla 'minoranza' della popolazione (il regista batte molto su questo punto) di portare l'immortale Donald alla vittoria. La sua capacità di cavalcare l'onda mediatica scatenata dai suoi stessi detrattori e dalle sue (poco) candide ammissioni di colpa - "Basta ammetterlo in televisione, perché diventi accettabile" sembra essere stato il suo segreto - è qualcosa che non resta sicuramente entro i confini a stelle e strisce. Come anche il riferimento al suo film Palma d'Oro, modificato in modo da collegare la data del rovinoso Election Day alla tragedia scatenata dall'evento, le sue ripercussioni sulla società e la politica a venire...