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Esclusivo: Rutger Hauer, l'ultimo spirito libero

Intervista: i segreti di Blade Runner, l'amicizia con Verhoeven e il perché non accettò Robocop

Rutger Hauer

13.08.2014 - Autore: Marco Triolo
Rutger Hauer ci accoglie con il suo famoso sorriso, le labbra strette quasi in modo sarcastico, quello sguardo glaciale ma allo stesso tempo penetrante. Sembra di trovarsi in presenza di Roy Batty redivivo. Scopriamo poi che Hauer è arrivato a Locarno, dove è presidente della giuria di Pardi di Domani, la sezione cortometraggi, in moto. Una moto presa noleggio che lo ha portato nel Ticino da Praga. Lo ha fatto perché ama viaggiare e scoprire il mondo, come ci spiega poi: “Un attore viaggia molto per lavoro, ma il rischio è quello di vedere solo uffici. Per questo è indispensabile prendere quella moto”. L'impressione, durante la nostra lunghissima chiacchierata, è che Hauer sia uno degli ultimi spiriti liberi, un uomo che ama il suo lavoro ma che, allo stesso tempo, è riuscito a vivere pienamente ogni istante. Un gigante del cinema, disponibile a confessare anche il più piccolo segreto. La nostra intervista.

Blade Runner (1982)
 
Il suo ruolo in Blade Runner è molto probabilmente quello per cui verrà ricordato per sempre. La disturba questo?
Perché dovrebbe? È una fortuna aver fatto quel film.
 
Vorrei chiederle una conferma diretta sul monologo di Blade Runner: alcuni dicono che l'abbia scritto lei, altri che si sia limitato ad accorciarlo. Qual è la verità?
Il monologo era nella sceneggiatura, io ho tagliato circa trecento parole, ho tenuto due battute (“Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione” e “I raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser”) e ne ho aggiunto una: “Tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia”. L'idea era che la batteria di Roy si stesse esaurendo in fretta, prima del tempo. È buffo, perché ripensandoci non parla affatto dell'amore per la vita, ma solo di esperienze nello spazio, eppure si capisce lo stesso che sta parlando di quello. Sono felice che abbia funzionato, è bello quando puoi dire le cose nella maniera sbagliata e la gente le capisce ugualmente nella maniera giusta.
 
È stato duro il passaggio dai film olandesi con Paul Verhoeven degli anni '70 a Hollywood?
Non saprei dirlo, per me questo è un lavoro bellissimo e anche se a volte è difficile non mi importa. Niente è facile nella vita, tutti abbiamo i nostri problemi. Fare questo mestiere è un dono, perciò non vi racconterò storie su come sia stata dura! E non è una cosa che mi ha cambiato la vita, perché tendo a non portarmi mai a casa i personaggi. Li creo nell'immaginazione, faccio degli schizzi e non pretendo mai che siano personaggi a tutto tondo. Sono metà di un personaggio, e se ho fortuna il pubblico completerà l'altra metà.

Soldato d'Orange (1977)
 
Tentare la fortuna a Hollywood è stata una scelta consapevole o le hanno proposto un ruolo?
La decisione di andare a Hollywood non dipende da te, ma se la prendi è meglio pianificare tutto alla perfezione ed essere sicuro che otterrai una green card, altrimenti non andrai da nessuna parte. Io sono stato fortunato, poco prima che mi proponessero il primo ruolo avevo deciso di prendere un agente e un avvocato. Un mese dopo sono andato oltreoceano per fare l'attività stampa di Soldato d'Orange, uno dei film più importanti della fase olandese di Verhoeven. Credo di aver anche vinto come migliore attore al Seattle Film Festival. Mentre ero lì mi hanno offerto il ruolo principale in un film. Una cosa senza senso, perché di solito, in America, devi ripartire da zero, da straniero ti tocca fare parti di alieni finché, in qualche modo, non rompi questa regola e ottieni altre parti. Quel film poi non si fece, ma siccome avevo un avvocato mi pagarono metà della somma che mi dovevano per contratto, ed era molto più di quanto avessi guadagnato in cinque anni di teatro!
 
Lei ha lavorato sia nel cinema d'azione che in opere più sperimentali e “d'autore”. Avrebbe preferito fare più film di quest'ultimo genere?
No, però arriva un punto in cui fare film d'azione smette di avere senso e comincia a far male, e non solo fisicamente. Diventa pacchiano. E poi ho dovuto smettere di fare gli stunt e i duelli con le spade perché le mie ginocchia cominciavano a farmi male. Da attore amo il movimento, il lato fisico della recitazione, ma ho iniziato a pensare che potevo anche fare dell'altro. Quando vieni dall'action è un salto non facile, ma se superi lo scoglio, quando sei abbastanza vecchio, puoi diventare un caratterista. Nella mia carriera ho sfondato molte barriere, ma non ho mai pianificato nulla, mai. Ho imparato solo a fare piani di riserva, nel caso qualcosa fosse andato storto.

Verhoeven e Hauer sul set della serie TV Floris (1969)
 
Ma come approccia i ruoli? Ad esempio, c'è differenza tra come si prepara per un film action o uno di Ermanno Olmi?
Dipende da quello che vuole il regista. Ermanno mi vide in un'intervista televisiva quando ero in Italia a promuovere The Hitcher e mi volle subito nel suo film. Quando ci incontrammo a Parigi mi disse: “So che di solito fai parti d'azione, ma il tuo volto mi piace molto”. Io accettai perché volevo provare una cosa diversa. Ci sono stati casi in cui ho rifiutato un ruolo perché il regista non era interessato al mio punto di vista su un personaggio. Altre volte ero io a volere disperatamente un ruolo per cui non ero adatto. La cosa buffa è che i film che non fai sono fondamentali nel determinare quelli che farai, anche se non se ne parla mai. Per esempio, poco prima di Blade Runner mi offrirono il ruolo del capitano in Das Boot, ma lo rifiutai. Grazie al cielo: le riprese di quel film durarono quattordici mesi e non sarei mai riuscito a fare Blade Runner.
 
A proposito di ruoli mai fatti, è vero che Paul Verhoeven la voleva in Robocop?
Sì, è vero. Ma gli dissi che non ero interessato. In quel periodo avevo appena scoperto la mia faccia e non volevo coprirla per metà con un visore. Credo che Peter Weller abbia fatto un lavoro gigantesco, molto meglio di quello che avrei fatto io. Paul mi ha anche offerto Black Book e un altro film che doveva fare con Schwarzenegger (non Atto di forza, sostiene. Ndr). Abbiamo tentato per tanti anni di tornare a collaborare, senza mai trovare il progetto o il ruolo giusto. Ma prima di morire penso che lo faremo.
 
È più difficile lavorare con un amico, come nel caso di Verhoeven?
Noi due abbiamo una relazione di amore-odio. Lui sul set combatteva sempre per quello che gli interessava, e se credeva in quello che facevi te lo lasciava fare, altrimenti dovevi lasciar perdere. Paul ha una mente oscura e crudele. Anche io ho una mente oscura, ma non crudele. Non farei mai film come i suoi, perché trovo che scioccare per il gusto di scioccare sia troppo a buon mercato. È uno stile che vende, sia chiaro. Ma a me piace la sottigliezza, preferisco il sottotesto al testo. Ho tentato spesso di lavorare a quel livello, temevo che il pubblico non mi avrebbe mai capito e invece lo ha fatto. Lo so grazie a Internet: prima potevi al massimo leggere delle recensioni e se vedevi la gente in coda al cinema capivi che il film piaceva. Ma con Internet è diverso, so dove vivono i miei fan e loro sanno dove vivo io. E sanno che il luccichio nei miei occhi è per loro.

Ladyhawke (1985)
 
Ladyhawke è uno dei film con cui sono cresciuto e che amo di più. Che cosa ricorda delle riprese?
Il cavallo, la Lady e il falco. E Richard Donner. E Vittorio Storaro. E la mia prima volta in Italia, a guidare il mio camper. Ricordo che parcheggiai a Campo Imperatore, un posto tranquillo e stupendo. Del set ricordo che gli italiani non smettevano mai di parlare! Non erano abituati a fare i film in presa diretta e Donner continuava a gridare “Fate silenzio, dannazione!”, ma nessuno lo ascoltava perché non parlavano inglese. Allora Dick chiedeva a Storaro di fare qualcosa e lui li zittiva subito. Sono molto fiero dei combattimenti con la spada perché li ho fatti quasi tutti di persona. Avevamo un ottimo maestro d'armi inglese e io stesso facevo scherma da quando avevo quindici anni. Lavorare con gli animali è stata la parte più dura. Avevo il falco sul braccio, il cavallo sotto e allo stesso tempo dovevo recitare. In quei casi devi conoscere il linguaggio del corpo degli animali, sapere cosa vuol dire se un cavallo rizza le orecchie o un falco volta la testa all'improvviso. Ma alla fine ci sono riuscito. Se ti capiterà di rivedere il film, sappi che ogni volta che il cavallo impennava me la facevo sotto, anche se all'esterno dovevo rimanere impassibile. È in questi casi che conta saper recitare.
 
La parte oscura della sua mente, di cui parlava prima, quanto è importante?
Molto. Un attore deve essere senza paura. Se pensi di poter fare un ruolo, lo devi fare, perché è probabile che ci siano altri attori che lo farebbero meglio. A volte fai bei film, a volte meno, ma quando un film trova il suo pubblico è una sensazione senza paragoni. È successo con Hobo with a Shotgun ed è successo con Blade Runner, e ci sono poche cose migliori di Blade Runner. Sono felice di aver interpretato quel ruolo e che ancora oggi sia tanto amato.