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Josh Brolin: “Scalare l'Everest? Amo troppo la mia vita!”

Intervista alla star di Everest: “Adoro viaggiare, per questo amo il mio lavoro”

Everest

10.09.2015 - Autore: Marco Triolo (Nexta)
Incontriamo Josh Brolin nel corso del Festival di Venezia, dove Everest è stato presentato come film di apertura. Mascella quadrata, grande senso dell'umorismo spaccone: il perfetto americano. Brolin è riuscito a crearsi, negli ultimi dieci anni, un posto d'onore nel cinema americano, dopo una lunga gavetta tra cinema e TV in piccoli ruoli. Figlio d'arte (suo padre è l'attore James Brolin), in Everest Josh interpreta Beck, uno dei pochi scalatori a sopravvivere alla tragica spedizione che nel 1996 costò la vita ad otto persone. “Adoro viaggiare, adoro muovermi – ci rivela – Per questo amo fare l'attore: ti permette di fare sempre nuove esperienze”.

Quindi questo film è molto personale per te?
Sì. Ricordo che da giovane, dopo aver guadagnato 5.000 dollari facendo un episodio di Autostop per il cielo, partii per sei mesi in Interrail in Europa. Non avevo abbastanza soldi per permettermi un albergo o un ostello, e così dormivo sui treni. Dormivo per sei ore e mi svegliavo tipo in Russia! Fare l'attore è un'esperienza simile. A proposito di Everest, il mio agente mi ha detto: “Sei sicuro di volerlo fare? La tua non è la parte principale”. “Sì, ok, ma l'hai letta la sceneggiatura?”. Mi ha davvero commosso e se non ti smuove qualcosa vuol dire che hai un cuore di ghiaccio.



Cosa ti ha attirato di questa storia di vita estrema e sopravvivenza? È qualcosa che ti è famigliare?
No, è appunto per conoscere meglio questo aspetto che ho voluto fare il film. Mi piace arrampicarmi, ma non sento il bisogno di scalare l'Everest. Amo troppo la mia vita e non credo necessariamente che ce ne sia un'altra dopo questa, perciò voglio sfruttarla il più possibile. Il mio lavoro mi permette proprio questo, arrivare al limite ma con le spalle coperte. È fenomenale quello che possiamo fare oggi con la CGI, possiamo dare al pubblico un'idea precisa di ciò che si prova a stare sull'Everest, a congelare a morte sapendo che probabilmente nessuno troverà il tuo cadavere. Non c'è alcuna solitudine più grande.

Dicevi che ami l'alpinismo. Qual è stata l'esperienza più spaventosa che hai vissuto?
La Via Ferrata in Svizzera. L'ho fatta su consiglio di un mio amico scomparso da poco, Dean Potter [alpinista americano, ndr], ma mentre me lo diceva mi sono dimenticato che parlavo con un tizio a suo agio su una parete liscia a 1.500 metri d'altezza e senza corde. A metà del percorso ero già incazzato nero e mi dicevo “Quando torno a casa lo ammazzo”. Ero appeso nel vuoto e non potevo tornare indietro, non c'erano segnali e pregavo che non ci fosse “il gran finale”, ma ovviamente c'era, altrimenti non sarebbe un'attrazione per alpinisti. Così giro l'angolo e vedo un ponticello appeso su uno strapiombo, che oscillava da tutte le parti. Il mio corpo si rifiutò fisicamente di proseguire: non volevo morire, avevo appena conosciuto una ragazza fantastica e mi piaceva la mia vita. Allora capii che dovevo semplicemente lasciarmi andare e iniziare a camminare. Non avevo mai provato a sfidare la paura a quel livello, ma quell'esperienza mi ha dato un minimo di comprensione di quello che avevano provato gli alpinisti sull'Everest.



Come ti sei trovato con il resto del cast?
Baltasar ha creato un gruppo molto unito, una vera famiglia. Condividevamo tutto: il tempo schifoso, le lunghe attese seduti in mezzo alla neve su un picco a 45 gradi di pendenza, congelati, coi piedi insensibili, John Hawkes che si lamenta, Jake Gyllenhaal che fa jumping jack senza motivo, Jason Clarke che pensa a che vino ordinerà quella sera. Personalità completamente diverse che convergono in una tempesta perfetta.

Quanto avete girato di persona voi attori, quanto invece avete lasciato fare agli stuntmen e quanto alla CGI?
Io ho fatto tutti i miei stunt. La CGI è lo strumento migliore per questo tipo di film: in Star Wars, ad esempio, la si usa per realizzare qualcosa di mai visto prima, qui per ricreare qualcosa che abbiamo solo immaginato e mai toccato con mano. Ma la scena in cui scivolo sulla scala ho dovuto farla davvero per circa 150 volte. Alla sessantesima volevo lasciare il film e tornare a casa, avevo un ematoma nerissimo dal ginocchio all'inguine. Dopo la Val Senales ci siamo spostati a Londra, in studio. Dovevamo indossare gli stessi indumenti che avevamo portato a -30°, solo che lì c'erano 26°, e al posto della neve c'era il sale. C'era un addetto che versava sale in un ventilatore, ti arrivava addosso e ti entrava negli occhi facendoti lacrimare. Una cosa terribile. Terribile. Preferirei scalare l'Everest che rifarlo.



Quindi non ti è piaciuta la lavorazione?
Mi piace il processo di fare film. Adoro lavorare con i Coen perché non succede mai niente, è la cosa più noiosa del mondo. Hai una sceneggiatura fantastica in partenza, non ci sono drammi perché devi solo pronunciare le battute. Io lavoro duramente, sono molto professionale e quando vedo un film finito e scopro che non è buono come pensavo, resto molto deluso. Di Everest sono molto felice.

Quindi è stato più rilassante girare il nuovo film dei Coen, Hail Caesar?
Per niente, anzi è stato durissimo. Perché loro comunicano poco, giri la scena e alla fine ti guardano e dicono “Va bene”, e se ne vanno! L'altro giorno ho parlato con Ethan e gli ho chiesto: “Com'è il film?”, e lui, “È ok”. Il che è davvero un buon segno, altrimenti neanche mi avrebbe risposto! Mi piace lavorare con loro perché sui loro set devi mettere da parte l'ego. E forse a loro io piaccio perché sono totalmente inappropriato, li faccio ridere e lavoro sodo. Ricordo che, quando hanno vinto l'Oscar per Non è un paese per vecchi e sono saliti sul palco, la gente pensava che fossero snob perché Ethan si è avvicinato al microfono e ha detto solo “Grazie”. Io mi stavo sganasciando perché, al contrario, sapevo che quello ero il momento più genuino degli Oscar!

In uscita il 24 settembre, Everest è distribuito da Universal Pictures. Per saperne di più, leggete anche:

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