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Voyage of Time – La recensione del nuovo film di Terrence Malick

Non chiamatelo documentario: il nuovo lavoro di Malick è un lungo viaggio mentale e poetico che traccia l’evoluzione del cosmo

Voyage of Time

07.09.2016 - Autore: Marco Triolo (Nexta)
La maestosità del cosmo, la poesia della vita sulla Terra, lo scorrere del tempo inesorabile. Terrence Malick ha finalmente consegnato alla storia Voyage of Time: Life’s Journey, opera ambiziosa a cui sta lavorando sin dall’uscita di The Tree of Life, di cui questo film è una sorta di appendice. Riprende, infatti, l’estetica della prima parte di quel film, che narrava appunto la nascita della vita, mescolando come in quel caso riprese della natura a momenti ricostruiti con i moderni effetti speciali, dalle carrellate spettacolari all’interno delle nebulose in espansione, all’avvento dei dinosauri e indietro fino addirittura al Big Bang.



Cate Blanchett narra il film (che nella versione IMAX, molto più breve, è invece narrato da Brad Pitt, anche produttore), leggendo versi scritti da un Malick che finalmente torna a livelli di ispirazione degni dei suoi lavori migliori. Ma sono le immagini a dominare: Malick fa buon uso di filmati di repertorio (il film è anche prodotto da National Geographic) mescolate a materiale originale (ad esempio un segmento sull’uomo primitivo) e riesce a dare incredibile coesione al tutto. In un’ora e mezza di film si passa dalla miseria umana all’enormità delle galassie in un continuo scambio tra immensamente grande e immensamente piccolo, che però non sfugge mai di mano al regista e non suona mai retorico. Anzi: il significato è cristallino e gli occhi di Malick – e i suoi versi – si meravigliano di fronte alla complessità e all’importanza di ogni cosa, che sia la vita di una persona per le strade di una grande città o il movimento dei pianeti.



Voyage of Time è un film che fa bene a Malick perché lo rimette sulla buona strada, riducendone al minimo i vezzi che ormai tendevano quasi all’autoparodia – ovvero, ad esempio, quella narrazione filosofica che qui ritroviamo, ma che si affida a una voce sola anziché spezzarsi in un’infinità di monologhi interiori che, almeno in To the Wonder (presentato anch’esso a Venezia), finivano per confondere. Così come la tendenza esagerata di Malick nel tagliare, sfoltire il montaggio fino a risucchiare il senso stesso del testo filmico. Qui il rischio non c’è perché non stiamo parlando di cinema narrativo propriamente detto, ma più di un viaggio mentale, una progressione fatta di suggestioni e non di tappe narrative. Eppure Voyage of Time è un film che si inserisce perfettamente nella filmografia di Malick: non chiamatelo documentario, sarebbe riduttivo.

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