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Sulla mia pelle, la recensione del film sugli ultimi giorni di Stefano Cucchi

Il film Netflix ricostruisce con rigore una pagina nera della cronaca italiana recente

Sulla mia pelle

29.08.2018 - Autore: Marco Triolo
È comprensibile che la Mostra abbia scelto Il primo uomo e Sulla mia pelle come film di apertura delle due principali sezioni del festival, proiettati dunque lo stesso giorno. Sono entrambi film tratti da storie vere e mostrano come si possa approcciare in maniera molto diversa il genere biopic. La parola d'ordine che li differenzia è “rigore”.
 
Il film di Chazelle (ne parliamo qui) tenta un approccio rigoroso alla materia ma scade un po' nella struttura del biopic hollywoodiano canonico. Sulla mia pelle, storia dell'agonia di Stefano Cucchi nei giorni precedenti la sua morte, quel rigore lo abbraccia per non lasciarlo più andare. Ne fa la propria cifra stilistica e su di esso imbastisce il racconto con coerenza.
 
I film non sono un'aula di giustizia e noi non siamo giudici”, ha detto il regista Alessio Cremonini durante l'incontro con la stampa. E ha perfettamente ragione: un film di denuncia come questo non deve puntare tanto a esprimere un giudizio, quanto a mostrare i fatti e lasciare che parlino da soli, in modo che lo spettatore possa farsi una propria opinione. In questo, Sulla mia pelle riesce benissimo. Cremonini è talmente determinato ad attenersi ai verbali, da scegliere di non mostrare direttamente il pestaggio di Cucchi da parte dei Carabinieri, in quanto non provato. Il regista affida se mai al titolo il compito di dichiarare un'evidenza negata da troppi: la prova delle violenze subite da Cucchi sta sulla sua pelle. Sul volto e sul fisico martoriati.
 
Il film prende la forma di un calvario kafkiano. Racconta sia l'esperienza di Cucchi in carcere e in ospedale, sia la battaglia della famiglia per poterlo vedere. Una vera e propria lotta contro i mulini a vento di una burocrazia orwelliana, che impedì loro di incontrare il figlio a suon di permessi e regolamenti. Ma non commette l'errore di santificare Cucchi, che Alessandro Borghi (trasformatosi nel personaggio attraverso una dieta rigorosa) interpreta come un uomo di 31 anni, con alle spalle una vita piena di errori, intenzionato “a cambiare la sua vita, continuando a sbagliare”. La sua condotta in carcere, la scelta di non denunciare i suoi aguzzini per paura di ritorsioni, la leggerezza con cui si affida a un avvocato d'ufficio inefficace e la sua tardiva e inutile marcia indietro, unite al rifiuto delle attenzioni dei medici, contribuiscono in maniera decisiva al suo destino.
 
Un uomo che sbaglia, ma che allo stesso tempo viene lasciato a se stesso, abbandonato da uno Stato che ne ha già stabilito la colpevolezza prima del processo, in quanto ex tossicodipendente. Uno Stato che, anziché essere dalla parte dei cittadini, erige continuamente muri. Separa e domina.
 
Il cast fa del proprio meglio per scandagliare i brandelli di emozione in un film per il resto quasi documentaristico. Borghi riesce a trovare l'innocenza nel suo protagonista fallato, ma è Max Tortora, nei panni del padre di Stefano, a stupire. È già la seconda volta che lo vediamo nei panni di un padre in circostanze drammatiche dopo La terra dell'abbastanza. Come in quel caso, anche qui la sua performance dimessa arriva al cuore dello spettatore, e il suo sguardo triste è indispensabile per ricordarci una realtà molto semplice: Stefano Cucchi potrebbe anche essere stato uno spacciatore. Potrebbe anche aver mentito alla sua famiglia e alle autorità. Ma era una persona vera, era figlio di qualcuno che lo avrebbe pianto. E questo dovrebbe valere per tutti in una società garantista.
 
Sulla mia pelle uscirà contemporaneamente in sala (da Lucky Red) e su Netflix il 12 settembre.