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Red Zone - 22 miglia di fuoco, il nuovo film di Peter Berg con Mark Wahlberg (recensione)

Epiche gesta da grande schermo, sparatorie urbane, la personificazione dell'America conservatrice dietro la macchina da presa

Wahlberg

05.11.2018 - Autore: Gian Luca Pisacane
Clima da nuova Guerra Fredda. Russi contro americani, Trump contro Putin. La lotta è tra agenti segreti, in pubblico è meglio stringersi la mano e sorridere. Ottima immagine per i fotografi, prova di ipocrisia in mondovisione. Si combatte lontano dalle telecamere, dall’altra parte del mondo, con uomini super addestrati, che scelgono di diventare “fantasmi” per difendere il proprio Paese. Temi cari al cinema di Peter Berg, che è sempre stato in grado di trasformare i drammi del presente in entertainment. Alla velocità della luce.

Lui incarna i valori dell’America conservatrice, che si lecca le ferite appoggiandosi ai suoi paladini. Gli unici a essere “civilizzati” nei suoi film sono i protagonisti: si struggono, pensano alla famiglia, alla patria, e scatenano l’apocalisse. Il nemico è spesso disorganizzato, senza traccia di umanità. Maltratta anche i famigliari (come il terrorista di Boston – Caccia all’uomo), incarna il male assoluto.



Lo spirito è manicheo, senza sfumature. Berg fa propaganda, tiene alta la bandiera, abbraccia anche un certo spirito religioso (alla fine di Deepwater – Inferno sull’Oceano i superstiti recitano il Padre Nostro). Chi si converte all’Islam è malvagio, chi viene da un altro pianeta (o nazione?) deve essere distrutto (Battleship), chi non è cresciuto secondo la cultura occidentale è inferiore (Lone Survivor).
 
Forse Berg è il regista giusto per l’era Trump, per far aumentare i consensi, per aiutare il presidente nella corsa alle elezioni di metà mandato (midterm). Adatta le epiche gesta al grande schermo, piega la storia al proprio disegno. Ma ha un pregio: è uno dei migliori nel campo degli action movie. Realizza stunt da urlo, sparatorie urbane da antologia. Sa come mantenere alta la tensione. Così in Red Zone – 22 miglia di fuoco mette a ferro e fuoco Giacarta, sempre con Mark Wahlberg (ormai giunto alla quarta collaborazione) in testa al plotone. Ma questa volta esagera.

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Le inquadrature durano due secondi al massimo, il suo “cavaliere senza paura” è un sociopatico iperattivo, e ogni “tic nervoso” si trasforma in un movimento della macchina da presa. Wahlberg (nei panni del cervellone esperto in corpo a corpo James Silva) si lancia in monologhi pieni di enfasi, esalta il lavoro, la necessità di essere sempre in prima linea. Follie da superuomo, sempre pronto a menar le mani.

Per difendere il popolo bisogna essere un po’ matti, sembra dire Berg. Ma la critica a un sistema che sta perdendo ogni parvenza di controllo resta sullo sfondo. A dominare la scena sono le sequenze rallentate, le inutili eccentricità dei personaggi (il capitano che porta le sneakers), e naturalmente le 22 miglia di fuoco da percorrere. Dinamiche in stile Michael Bay (quello degli eccessi, non di 13 Hours: The Secret Soldiers of Benghazi) che potrebbero addirittura dar vita a una trilogia. Si salvi chi può.