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Rambo: Last Blood, Stallone sfida i messicani e il passare del tempo (recensione)

Quinta avventura per il reduce più famoso di sempre. Un guilty pleasure impenitente, che gioca con l'effetto nostalgia

Sylvester Stallone

19.09.2019 - Autore: Gian Luca Pisacane
Rocky Balboa/John Rambo. Due anime, lo stesso corpo, dal ’76 (’82 per il veterano) a oggi. Lo Stallone Italiano è figlio della crisi, del Watergate, di Jimmy Carter, è l’eroe proletario della porta accanto. Invece Rambo arriva dal Vietnam, cresce sotto Reagan, che disse anche la mitica frase: “La prossima volta manderò Rambo”. Cinema conservatore, sempre al limite, dal First Blood del primo capitolo a questo ultimo (ma lo sarà davvero?) Last Blood. Per la quinta avventura, Stallone sceglie l’impalcatura di Rocky Balboa.

Nel film del 2006, il pugile era ormai in declino, gestiva un ristorante, era vedovo, cercava di aiutare il suo amico Paulie, viveva del passato. Fino a un nuovo incontro, al richiamo del ring. Qui Rambo si è ritirato, si prende cura di una famiglia acquisita, si improvvisa padre, ha un ranch in Arizona. E lotta contro i suoi demoni. Il reduce “psicopatico” torna a galla. Il decisionismo armato gli scorre nelle vene, è il vendicatore ultra-patriottico, che al tempo di Trump cala la sua ascia sul Messico.



“Un corpo da combattimento, un milite ignoto che nessuno, oltreoceano, desidera dimenticare”, ci dicevano in Rambo 2 – La vendetta. Qui sembra un giustiziere della notte, attaccato alle sue pillole e a un mondo che non c’è più. La sua invincibilità viene messa a dura prova, il superomismo sembra aver fatto il suo tempo. Rambo è il prodotto di una società che ha superato ogni disincanto, dove non c’è più spazio per le illusioni.

Un Rambo notturno, di frontiera. Dal dramma bellico si passa al western, e il pellerossa diventa il nostro paladino. Bistrattato, solo, chiama l’invasore nella sua terra per sfidarlo come se fosse a Little Bighorn contro il Generale Custer. Non è più il soldato americano, si è trasformato nel vietnamita. Attacca e si ritira, scava gallerie, usa poco le pistole, preferisce arco e frecce accompagnate dal suo fedele coltello. Con tanto di esplosivi e martello (roba da A Beautiful Day – You Were Never Really Here e oltre).

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Montaggio scatenato nella prima parte, lacrime e sangue nella seconda. Senza la paura di scadere in qualche effettaccio, di lanciarsi nello splatter, come in John Rambo, ma con qualche risvolto sociologico in più. Cinema che dopo il #metoo ci vuole coraggio solo a immaginare. Rambo minaccia anche le donne se è necessario, per poi salvarle, e cavalcare verso l’orizzonte come un novello John Wayne.

Un guilty pleasure impenitente, contro il sistema, la criminalità e le convenzioni. Che pesca a piene mani dalla Serie Z, sventra i suoi avversari, tiene viva una leggenda che senza Stallone svanirebbe. L’eterno ragazzo non si ferma, si calca il cappello da cowboy sulla testa, e si immerge negli inferi. Qui Sylvester abbandona la regia, firma la sceneggiatura con Matthew Cirulnick, e mette Adrian Grunberg dietro la macchina da presa. Da non perdere i titoli di coda: l’effetto nostalgia è lancinante. Ma solo per appassionati.

Il film uscirà nelle sale giovedì 26 settembre distribuito da Notorious Pictures