La fotografia di Emmanuel Lubezki (candidato all'Oscar per Birdman) corona un film di indubbio fascino meditativo ma che è forse troppo convenzionale per colpire in profondità. Questa è la diagnosi che si estrapola dalle prime recensioni di Last Days in the Desert, film di Rodrigo Garcia presentato al Sundance Film Festival, che racconta, appunto, “gli ultimi giorni nel deserto” di Cristo, o meglio Yeshua (Ewan McGregor). Una visione molto terrena del Messia, che saprà attirare sia i fedeli che gli agnostici e atei, costruita intorno a uno degli episodi più brevi dei Vangeli e quindi liberamente adattata.
Lo Yeshua di Ewan McGregor non incontra solo il Diavolo durante il suo pellegrinaggio di quaranta giorni nel deserto, ma anche una famiglia composta da padre (Ciaran Hinds), madre (Ayelet Zurer) e figlio (la rising star Tye Sheridan). Quest'ultimo vorrebbe lasciare quelle terre desolate e la vita del tagliapietre per partire alla volta di Gerusalemme. Nel conflitto tra il ragazzo e suo padre, Yeshua vede riflesso il suo abbandono da parte di un padre che si rifiuta di parlargli. “La comunicazione tra genitori e figli è stato sempre un problema nei secoli – scrive Todd McCarthy di The Hollywood Reporter – e così è anche tra Dio e il suo unico figlio nella narrazione rigorosamente non-divina di Rodrigo Garcia”, che, per quanto “fisicamente bellissima”, “è intellettualmente confusa e creativamente cauta, e lascia lo spettatore, credente o meno, con molte domande ma nessuna risposta concreta”.
Justin Chang di Variety definisce il film “un resoconto piuttosto accattivante e visivamente stupendo del periodo passato da Gesù nel deserto prima dell'inizio del suo ministero”, “alquanto lucido e accessibile nei suoi temi di empatia, compassione e sacrificio”, “scrupolosamente concentrato sulla sua umanità piuttosto che divinità”. Per Tim Grierson di ScreenDaily si tratta di “Un'esperienza di potente meditazione su temi come fede, destino, morte e padri e figli” e “Un esercizio minimalista in simbolismo spirituale che rischia di essere troppo poetico e metaforico”. Resta comunque “narrativamente ambizioso”. “Alla fine, Last Days in the Desert funziona bene su quasi ogni livello – scrive Germain Lussier di Slashfilm – Ma la verità è che, nonostante tutti i suoi pregi, non arriva mai a lasciare a bocca aperta come ci si aspetterebbe da talenti di questo livello”.
Il punto di forza principale resta la straordinaria performance di Ewan McGregor nei doppi panni di Yeshua e del suo doppelgänger, il Diavolo stesso. “Anche se tecnicamente di dieci anni troppo vecchio per la parte, McGregor gestisce in maniera impressionante il ruolo del cercatore solitario”, scrive Todd McCarthy. “La decisione di far interpretare entrambi i ruoli a McGregor – scrive Justin Chang – è risultata una scelta ispirata, capace di catturare efficacemente la lotta interiore di Yeshua”. “La doppia performance di Ewan McGregor fa sì che Last Days in the Desert non perda mai di vista la sua grazia e umiltà”. Chris Bumbray di JoBlo aggiunge: “Il film mi ha alternativamente annoiato e ipnotizzato. La noia nasce dal fatto che per 98 minuti il film avanza alla velocità di una lumaca, ma allo stesso tempo sono stato letteralmente steso dalla doppia interpretazione di Ewan McGregor”. Che a questo punto vale anche da sola il prezzo del biglietto.
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Prime recensioni: la critica USA sul Gesù di Ewan McGregor
Last Days in the Desert è “visivamente stupendo” ma a tratti confuso, elevato dalla performance dell'attore nel doppio ruolo di Gesù e Satana
27.01.2015 - Autore: Marco Triolo