Da qualche parte, Oren Peli sta sguazzando in uno stanzone tra montagne di soldi, modello Paperon De Paperoni. Costato quindicimila dollari, il primo “Paranormal Activity” ne incassò quasi duecento in tutto il mondo, mentre il secondo portò a casa un bottino lievemente inferiore a fronte di un budget di tre milioni. Il terzo capitolo è già un successo annunciato, anche se non se lo merita.
Se il primo episodio era infatti un gioiellino, ben strutturato in un crescendo di tensione e orrore capace di rendere angosciante ogni rumore, ogni angolo buio e di sfociare in un finale criptico ma non deludente, il secondo fu un'esperienza tediosa fatta di inquadrature interminabili e spaventi frettolosi che non lasciavano nulla. Per metà film, guardando il più recente “Paranormal Activity 3”, si ha l'impressione che Peli abbia preso nota di cosa non andava nel secondo, e abbia posto rimedio chiamando innanzitutto due autori avvezzi al linguaggio del documentario: Henry Joost e Ariel Schulman.
Il risultato è un film decisamente superiore al precedente. Non che ci volesse molto, per carità. Torna un discreto crescendo di tensione, torna parte di quell'inquietudine che caratterizzava il primo. Certo, la sala gremita non è il posto ideale per vedere questi film, che giovano di una visione in solitaria magari nel silenzio assoluto di una casa buia. Ma il fatto che, anche nella confusione causata dal pubblico teenager del venerdì sera, la prima mezzora di film abbia scatenato più di un salto sulla poltrona, va decisamente a merito dei registi. Ci sono anche un paio di trovate azzeccatissime: la videocamera posta sulla base di un ventilatore che fornisce una lenta panoramica del salotto da sinistra a destra e viceversa è una grande idea, anche se avrebbe potuto essere sfruttata meglio. Così come è una giustificazione intelligente del formato documentaristico la professione del patrigno delle sorelle Featherston (Christopher Nicholas Smith), regista di matrimoni.
Ma sono due trovate due, e tempo mezzora hanno esaurito completamente la loro funzione, non sorprendono più e di certo non spaventano. Questo è un problema del franchise in generale: il primo “Paranormal Activity” funzionava, ma non era certamente materiale da sequel. Non che l'idea di estendere quello che sembrava solo il dramma di una donna all'intera famiglia sia cattiva. E' che per lo meno si doveva tentare di dare respiro ai seguiti concedendo loro una struttura un po' più sostanziosa, in modo che si reggessero sulle loro gambe. Senza contare che questo terzo film non è nemmeno coerente come prequel. Come saprete, “Paranormal Activity 3” racconta l'origine della maledizione che ha perseguitato le sorelle Katie e Kristi negli anni successivi. Ma risulta difficile credere che le Featherston, nei capitoli precedenti, ricordassero solo vagamente la strana presenza che le tormentava da piccole, date le cose che accadono qui. E risulta ancora più difficile bersi tutta la parte finale, che tra l'altro è in parte copiata da “L'ultimo esorcismo”. Inoltre, non c'è traccia dell'incendio che, a detta di Katie, aveva costretto la famiglia a traslocare.
In conclusione, “Paranormal Activity 3” scorre via in velocità e dà l'impressione di essere il più corto dei tre. Ma non bastano due idee carine per fare un buon film, figurarsi un franchise. Speriamo che questo sia davvero l'ultimo e che non si scopra che le Featherston avevano un'altra sorella, o una zia, o una cugina di secondo grado, perché la serie ha già dato tutto quello che poteva con il primo capitolo.
“Paranormal Activity 3” è distribuito nelle nostre sale da Universal Pictures.
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Paranormal Activity 3 - La nostra recensione
Terzo appuntamento con la famiglia Featherston, deludente quanto il secondo. Non bastano due buone idee per fare un franchise
22.10.2011 - Autore: Marco Triolo