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Occhi di Laura Mars 40 anni dopo, riscopriamo il disturbante thriller con Faye Dunaway

La Dunaway e Tommy Lee Jones sono i protagonisti del film di Irvin Kershner, canta Barbra Streisand e il soggetto è addirittura di John Carpenter

Dunaway

02.08.2018 - Autore: Gian Luca Pisacane
L’occhio che uccide. È il titolo del capolavoro di Michael Powell, un saggio sul voyeurismo, dove l’assassino fa in modo che le sue vittime si vedano allo specchio un attimo prima di morire. Ogni omicidio viene ripreso dal killer per immortalare quell’istante di terrore. Era il 1960, e in molti non accettarono quella morbosità che invadeva lo schermo. Ma Powell stava gettando le basi del thriller moderno. 

Occhi di Laura Mars diretto da Irvin Kershner (uscito negli USA il 2 agosto del 1978, spegne quaranta candeline) è figlio di quella tensione erotica, dello sguardo che cannibalizza le immagini e la vita stessa. La protagonista, testimone della violenza, dei massacri perpetrati dallo squilibrato di turno, si connette con la follia. Si tratta di un’evoluzione del semplice voyeur, come poteva essere l’innocente James Stewart ne La finestra sul cortile.



Qui Laura Mars diventa una cosa sola con il male, non è una spettatrice, le sembra di accoltellare le malcapitate, di sporcarsi del loro sangue senza poter far nulla. Ha costruito la sua carriera sulla mercificazione del corpo della donna. È una fotografa di punta, e il suo successo arriva da uno stile spregiudicato, che ritrae bellezze giovanili seminude in situazioni al limite (scene del crimine, incidenti stradali, catastrofi di vario tipo). La brutalità che le ha dato la fama un giorno le si rivolta contro, l’aggressività dei suoi soggetti si impossessa della sua esistenza.

Il 1978 fu anche l’anno de Il cacciatore, forse la condanna definitiva della guerra del Vietnam. Era un inno alla pace, quella che Laura Mars non può trovare, perché la società le punta il dito contro. Come i maltrattamenti non possono essere un gioco (la roulette russa nel capolavoro di Michael Cimino), così la durezza delle immagini non può essere accettata come forma di arte. È il mantra di un’America perbenista, che a fine anni Settanta stava cercando di lavarsi le ferite e credere negli antichi valori, come avrebbe insegnato anche due anni dopo il genere horror (Venerdì 13, dove a venire puniti erano i “viziosi”).



A interpretare Laura Mars fu scelta Faye Dunaway, all’epoca sulla cresta dell’onda. Il suo nome è da solo prima del titolo, e l’intero film poggia sull’intensità, il carisma e la naturale fotogenia che ne avevano fatto un’icona con Gangster Story. C’erano già stati Chinatown di Polanski e il premio Oscar con Quinto potere. Era la diva del momento, e aveva rubato la parte nientemeno che a Barbra Streisand, autrice del tema Prisoner, che risuona più volte durante questo thriller.

Protagonista maschile un giovanissimo Tommy Lee Jones, rampante e proiettato verso il futuro. I due insieme non sono belli come la coppia Dunaway/Redford de I tre giorni del condor, ma il film ottenne ottimi risultati al botteghino. Il soggetto è di John Carpenter, reduce da Distretto 13 – Le brigate della morte e pronto a terrorizzare il mondo con l’eterno Halloween – La notte delle streghe.