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Midsommar, la recensione del nuovo horror diretto dal regista di Hereditary

Ari Aster sposta lo sguardo verso The Wicker Man. Brividi a cielo aperto nell'estate svedese

12.07.2019 - Autore: Gian Luca Pisacane
Si parte dalla “casa delle bambole” di Hereditary – Le radici del male: un’esistenza costruita a incastri, come in un modellino, il terrore che deriva dagli spazi chiusi, claustrofobici. In Midsommar – Il villaggio dei dannati si torna a quella paura ancestrale, per poi giocare con gli opposti. All’oscurità si sostituisce la luce (il sole non tramonta mai), dalle pareti soffocanti si passa agli spazi aperti.

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È un horror anomalo, en plein air. I muri li troviamo soltanto nel mega dormitorio e in qualche struttura lì vicino. Tutto il resto è verde, natura, piante. Si potrebbe quasi sentire il respiro della Terra di cui narra Richard Powers nel romanzo Il sussurro del mondo. Ma qui più che di sussurri, si tratta di urla, grida condivise, dolore, sofferenza, che accompagnano strani rituali e girotondi bucolici. Magari sotto acidi, con le immagini che si deformano, si ribaltano.



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Il regista Ari Aster guarda direttamente al capolavoro britannico The Wicker Man. Riprende la stessa struttura, la dilata nel tempo (140 minuti a tratti estenuanti). La perdita, la ricerca. A “sparire” in The Wicker Man era una ragazzina su un’isola ai confini del mondo, qui la protagonista resta orfana e cerca una sua identità, in Hereditary – Le radici del male a morire era la nonna. Tre film che si intrecciano, si specchiano l’uno nell’altro, formano un origami.

L’elaborazione del lutto (che una volta sfociava nella possessione), qui è un lento percorso verso la follia. Con una tensione sessuale costante, quella che in The Wicker Man portava alle orge per le strade e al sensuale ballo di Britt Ekland (completamente nuda, ma sostituita da una controfigura). Nel 1973 la censura ci andò a nozze. In Midsommar – Il villaggio dei dannati il delirio deriva dalla mancanza di contatto fisico. La coppia di fidanzati non si bacia mai, a malapena si sfiora. Lui è tentato da una conturbante ragazza del luogo, e non a caso nella coreografia finale a essere “eliminato” è chi si scontra, e cade.

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Si muore se ci si attrae, la salvezza deriva dalla distanza, dalla comunione con qualcosa di superiore (i fiori che ricoprono la regina). Le relazioni devono essere concordate con i saggi, il corteggiamento segue formule rigorose (al limite del disgusto), e l’amore fisico è una “questione di gruppo”. Mentre la realtà è distorta, gli allucinogeni prendono il sopravvento, in un incubo di mezza estate. Aster continua a ripensare il genere con un taglio intimista. Al centro ci sono sempre i travagli di chi ha perso una persona cara, con la famiglia sotto attacco. La madre che da protettrice diventa minaccia in Hereditary, “l’orfana” che si trova all’inferno perché è stata abbandonata.

Ma questa volta Aster eccede con i virtuosismi: la macchina da presa esegue ogni tipo di evoluzione. E la forza inventiva di Hereditary cede il passo all’omaggio, alla volontà di richiamare un cinema più classico, con una prima parte un po’ più debole della seconda. Non mancano anche l’ironia, le battute taglienti, e i momenti da dramma adolescenziale. Mentre le tenebre avanzano e un’antica ricorrenza si prepara a mietere le sue vittime.

Il film uscirà il 25 luglio distribuito da Eagle Pictures.