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Kubo e la spada magica - La nostra recensione

Inutile sprecare superlativi, basta volgere gli occhi e la coscienza nella giusta direzione per restare affascinati da una animazione che resterà negli annali

31.10.2017 - Autore: Mattia Pasquini (Nexta)
Col passare del tempo, e con l'universalizzazione di determinati processi creativi e possibilità tecniche, le maglie del meraviglioso strapotere Pixar-Ghibli hanno lasciato spazio ad animazioni diverse, permettendo al cuore degli appassionati del genere di esser conquistato, e finalmente, di nuovo, sorpreso. Kubo e la spada magica - o meglio Kubo and the Two Strings (senza che ce ne vogliano alla Universal), come ci si renderà conto a posteriori - è una di queste. Uno di quei rari casi in cui si riesce a vedere realizzata con - apparente - semplicità la sintesi da molti inseguita di una animazione in grado di parlare a diversi pubblici, di offrire insegnamenti e spunti, senza cadere nella pedanteria o nella retorica e soprattutto di farci perdere davvero in una favola in cui anche la magia è credibile.

La produzione della Laika non è nuova a questi successi - dopo La sposa cadavere, Coraline e la porta magica, ParaNorman e Boxtrolls - ma nel caso del film diretto dall'esordiente (alla regia, ma già produttore degli ultimi due dei suddetti) Travis Knight la fascinazione è davvero notevole. L'avventura del piccolo Kubo, cantastorie e mago degli origami, costretto a sfuggire da persecutori soprannaturali e a cercare di scoprire il mistero legato alla sua famiglia, indizio dopo indizi, ci fa attraversare con lui mondi talmente diversi nei quali viene spontaneo sospendere l'incredulità, tanta è la forza visiva e narrativa di quello che vediamo scorrere sullo schermo.



È un ritorno della favola, storicamente intesa, quella fissata dai canoni letterari di Todorov, ma anche quella capace di far tornare bambini i più grandi e far sentire adulti i più piccoli. Perché tutti abbiamo un passato, tutti sentiamo irrazionalmente la forza di certi legami, tutti miriamo a costruire una nostra piccola comunità, della quale spesso non ci rendiamo conto di essere il fulcro, consapevolezza che costa fatica, e percorsi al limite dell'iniziatico. Qui più che mai, con l'identità tra fantastico e reale che sin da subito si stabilisce, consentendoci di seguire il nostro eroe nella sua crescita.

Come rinunciare a una sola delle tappe che si susseguono, dalle più drammatiche alle più comiche. Che Favola sarebbe, senza qualcuna di esse? Senza l'incitamento della scimmia di legno, l'impaccio dello scarabeo samurai, la minaccia del misterioso nonno… e tutti gli altri personaggi, che piano - livello dopo livello - scopriamo. O meglio, si mostrano, in maniera diretta, genuina, accompagnandolo nella rivelazione e regalando a noi ripetute occasioni di godere della bellezza del tratto e dell'affresco che li e si compone. Uno scenario complesso eppure lineare, per sfruttamento di colori e per la ingannevole rigidità di certi disegni, funzionale a una essenzialità che si staglia sulla ricchezza degli sfondi e che si scopre complementare a quella dei nostri eroi, non inutilmente sovrastrutturati da restare impermeabili ai più piccoli, non banalmente fiabeschi da annoiare i più grandi.



Una mitologia famililare fatta di amore e onore, che prende corpo davanti ai nostri occhi; come le composizioni di Kubo, i suoi animali di carta, la sua nave di foglie… O come la splendida Stop Motion e le scenografie di combattimenti che altre produzioni non potranno che invidiare, e che rimandano a un classicismo tanto letterario quanto cinematografico. Un miracolo che in definitiva si svela assolutamente riconoscibile, sia per la vita che trasmette anche nei momenti più tragici e definitivi, sia per l'insegnamento - non originale, certo, ma niente affatto banale, soprattutto in questa forma - che anche la morte non è altro che un momento di passaggio, un altro inizio, da esperire tenendo cara la memoria di quel che è stato, consolatoria quanto di ispirazione; un cambiamento, che può nascondere soprese (come la versione di While my Guitar Gently Weeps di George Harrison cantata da Regina Spektor, con cui il film ci saluta). E che ogni figura della nostra storia contiene in sé tanto buono quanto cattivo, e che a volte la differenza tra i due passa per la consapevolezza delle intenzioni e dall'accettazione della diversità, anche solo dei punti di vista e delle scelte altrui. E che forse è inutile cercare una perfezione che sia assoluta, se ci allontana dall'umanità che ci circonda.