Ovvero: cosa rimane del contatto umano nel nostro mondo iper-tecnologizzato e soprattutto, la distanza che l’utilizzo di software sofisticati produce inevitabilmente sugli schemi relazionali è davvero un fattore così positivo per l’esistenza umana? Insomma, in questo modo non ci stiamo forse imbarbarendo e perdendo quell’interazione umana necessaria a non trasformare il mondo in un essenziale ring sanguinolento dove a vincere è il più forte, o semplicemente il più digitalmente evoluto? Per rispondere a questa domanda il regista parte da un ambiente assolutamente estremo, quello prettamente bellico, per addentrarsi negli incubi del veterano Ivan (Gregoire Colin) e seguirlo dopo la fine del servizio mentre cerca di ritornare lentamente alla quotidianità.
Ed è un viaggio distorto tra ossessioni, paure, violenza e incapacità di chiudere con l’esperienza bellica nonostante la distanza fisica interposta tra i luoghi dell'azione militare e quelli più “civili” abitati invece corporalmente dal protagonista. In questo percorso, però, una sorta di incursione molto personale nella prospettiva di un reduce affetto da sindrome da stress post-traumatico, il film, pur essendo un racconto interessante, soffre a tratti di eccessiva disconnessione dal piano del reale. Certo, il registro scelto è dichiaratamente di tipo sensoriale, onirico, interiore, però il dramma di un uomo che nonostante non si trovi più a uccidere bersagli militari armato solamente di fucili soffre lo stesso di sensi di colpa, manie di persecuzione e costante senso del pericolo, a volte appare come una forzatura eccessiva sulle corde emotive dello spettatore, non riuscendo a fare il salto tra una prospettiva molto individuale e ristretta a un’esperienza piuttosto specifica, e la dimensione collettiva sulla quale per primo si propone di dire invece la propria.