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About Endlessness, Roy Andersson torna a Venezia dopo il Leone d’Oro (Recensione)

Il regista svedese porta al Lido il suo ultimo film, ancora una contemplazione sull'esistenza

About Endlessness

03.09.2019 - Autore: Marco Triolo
Sono passati cinque anni da Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza, l’ultimo film di Roy Andersson che, presentato a Venezia, vinse il Leone d’Oro. Il regista svedese torna con About Endlessness, un criptico dramma sulla condizione umana dotato di un imprevedibile umorismo.

Il film si apre con un omaggio a Leopardi e a L’infinito – una coppia di anziani contempla il panorama di una città da un colle. Da qui Andersson inizia ad accostare diverse brevi vignette che, insieme, formano un senso più generale sulla sofferenza che provoca stare al mondo. C’è un prete che ha perso la fede e si rifugia nella bottiglia. Una donna che attende il suo uomo alla stazione. Una coppia di genitori che visita la tomba del figlio. Un uomo che invidia un ex compagno di classe che sembra aver ottenuto quello che lui non è riuscito mai a raggiungere nella vita.



A volte si tratta di scene brevissime, altre volte (nel caso del prete, ad esempio) di personaggi ricorrenti. Non sembra esserci una vera logica narrativa, ma forse anche questo nasce da una scelta precisa. Quella di raccontare come il caso domini qualunque cosa, come non ci sia salvezza e come quell’eternità di cui parla il titolo sia solo un sogno, una chimera. Nella realtà conta solo la vita e come decidiamo di viverla.

La cosa spiazzante è che Andersson trova una vena tragicomica nel modo in cui ci arrabattiamo e scalpitiamo per dare un senso più alto al tutto. Dimenticando che ciò che ci circonda è bello e che il senso della vita può essere già trovato in una semplice nevicata, senza bisogno di disturbare Dio o chi per lui.



Esteticamente, Andersson sceglie di riprendere tutto con la macchina da presa leggermente inclinata, e questo basta a infondere al film un senso di inquietudine difficile da esprimere a parole. I set e il modo in cui sono fotografati aggiunge un livello di claustrofobia: tutto sembra finto, ogni ambiente risulta soffocante e monotono.

Infelicità, senso di smarrimento, mancata realizzazione personale, vergogna. Ovunque dominano sentimenti di disperazione. Eppure sembra esserci un filo di speranza: basterebbe essere in grado di vedersi dall’esterno per capire quanto queste frustrazioni siano ridicole. E osservare ciò che ci circonda per sollevarci sopra le rovine e volare liberi.
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