NOTIZIE

Il giardino delle vergini latine - La recensione di Jane the Virgin

La serie che ha fatto vincere a Gina Rodriguez un Golden Globe, è una divertente attualizzazione del genere telenovela in un contesto più nordamericano

Jane the Virgin

21.01.2016 - Autore: Alessia Laudati (Nexta)
Mentre impazza la polemica sulla scarsa presenza di nomination nere e latine ai prossimi Oscar, Jane the Virgin è invece manifestazione – seppur esclusivamente televisiva - di orgoglio ispanoamericano ruspante e del tentativo di mescolare due culture reali e cinematografiche. Quella che si riflette nelle passioni violente e tipiche della telenovela, e quella che invece si è allontanata dal genere virulento per approdare a prodotti maggiormente moderni, ironici e acidi. Anche in virtù di un fenomeno chiamato immigrazione verso il Nord America, che ha fatto nascere una fetta di pubblico, che pur mantenendo i legami con la cultura di provenienza ha cambiato radicalmente il profilo dei propri gusti e delle sfide del presente. 

Jane the Virgin, remake dello sceneggiato venezuelano Juana la virgen, sembra quindi essere stato pensato per un nucleo di spettatori cosidetti ‘latinos’, cittadini di provenienza sudamericana ma residenti negli Stati Uniti, con una certa attenzione rivolta anche al tradizionale pubblico yankee. Che di certo non disdegna le buone storie costruite con un respiro universale. E l’ipotesi è confermata dal fatto che la serie mescola elementi tipici del formato di intrattenimento iconicamente ispano-americano, ovvero intrighi serrati, scambi famigliari, tematiche scottanti, serpeggiante moralità cristiana, con la più frizzante comicità demenziale di tanti prodotti a stelle e strisce. Senza perdere però il buongusto.

Leggi anche: Serialità migrante tutta da ridere



E allora, la storia di Jane (Gina Rodriguez), una giovane ventitreenne vergine che per un errore medico rimane incinta, è capace di affrontare con humor alcuni argomenti molto complicati. Sono presenti per esempio discorsi sulla maternità e sulla paternità, siano esse biologiche o acquisite, sull’aborto e sul dramma dell'assenza di una figura paterna. E tutti questi macro-discorsi sono condotti attraverso una mano registica e narrativa che si colloca esattamente a metà tra i due continenti. Se è infatti possibile rintracciare un elemento tradizionale della cultura televisiva dei 'latinos', esso certamente risiede in una sorta di brullo romanticismo unito a un umore melò patinato e gentile.

Ma poi Jane the Virgin non si accontenta di farsi trascinare nella spirale di passioni dettate dai tanti colpi di scena e intrecci presenti. Piuttosto sdrammatizza, porta freschezza, riflette con ironia su un argomento 'serio' come la paternità e lo fa affiancando ai personaggi ispanoamericani, per aspetto e caratterizzazione, anche alcuni caratteri propriamente a stelle e strisce. Come il ruolo del detective interpretato dal fidanzato di Jane, Micheal (Brett Dier), attore dalla fisicità tipicamente caucasica.

Completano il melting pot culturale, un gusto kitsch per ambientazioni e vestiti, tutto molto colorato e sanguigno e una frizzante colonna sonora eseguita sempre sul ritmo di una salsa pop e trascinante. Giustificato anche il tono mai incisivo sulle parti più controverse, vista la giovane età della protagonista e l’aspirazione da teen drama latino.
FILM E PERSONE