
Nel suo film, la tragedia è sempre dietro l'angolo ma non colpisce mai. È una scelta molto particolare e ottimista. Quindi lei è ottimista sulla risoluzione del conflitto tra Israele e Palestina?
Non avevo intenzione di fare un film drammatico perché non è nella mia natura. Volevo trattare una storia che affrontasse temi sociali in maniera profonda, ma anche con una certa leggerezza, perché desideravo che il pubblico uscisse dal cinema immedesimato nelle vicende, ma non per forza sopraffatto dal dolore. E quindi sì, sicuramente è un film pieno di speranza e non mi stancherò mai di dirlo: in questo film ho raccontato una visione di pace che non è solo la mia, ma è condivisa da tante persone.
Pensa che il cinema possa cambiare la realtà?
Sicuramente penso che non solo il cinema ma l'arte in generale, quindi letteratura, pittura, musica, abbiano un po' questo messaggio. Propongono scenari utopici, si esprimono attraverso dei sogni che però possono essere tradotti e applicati alla realtà.
Il film è strutturato secondo l'archetipo classico dello scambio di vite e ricorda ad esempio Il principe e il povero di Mark Twain. Quanto è importante, nel raccontare una situazione così complicata, utilizzare una struttura semplice?
Avevo la possibilità di raccontare o un film ermetico o uno che fosse aperto alla speranza e accessibile, e ho scelto questa seconda opzione. La struttura narrativa molto sobria è stata una scelta registica ben precisa, e anche dopo aver scritto la sceneggiatura ho fatto un lavoro a togliere, tagliando tutto quello che era eccessivo. A volte la scena era già scritta e l'ho cambiata, oppure c'erano delle battute e ho preferito il silenzio. Emblematica in questo senso è la scena in cui i due padri si incontrano al bar e non si dicono nulla, ma il silenzio parla molto di più dei dialoghi forti che avevo scritto. Oppure la scena in cui Emmanuelle Devos vede sul marciapiede Yacine (Mehdi Dehbi), le cadono le buste della spesa e lui la aiuta a raccoglierle, le mani si sfiorano... Sono convinta che più si è sobri più si lascia spazio a emozioni e sentimenti.

E quanto spazio ha lasciato invece all'improvvisazione sul set?
Non c'è mai stata improvvisazione sul set, ma un grande lavoro di preparazione a monte. Durante le prove ho lasciato a tutti la libertà di esprimersi come volevano, ma poi, nel momento in cui abbiamo deciso che la scena sarebbe stata costruita in quella maniera e abbiamo cominciato a girare, tutto doveva essere preciso al millimetro.
Il film mi ha colpito personalmente perché ho un amico che ha vissuto per qualche anno in Israele e mi diceva che gli israeliani hanno amici palestinesi e viceversa...
Sì è vero, ci sono israeliani e palestinesi che lavorano insieme, sono amici, si fidanzano. C'è una vita in comune, però è anche vero che ci sono tante difficoltà. Purtroppo, come sempre, sono gli estremisti a prendere in ostaggio un intero popolo. Comunque ci tengo a dire che, anche se evoca delle questioni politiche, il mio è un film che, come diceva Frank Capra, parla della gente alla gente. Volevo parlare della storia di tutti i giorni, della quotidianità di queste famiglie.
Le vite dei due ragazzi non sarebbero mai state le stesse se non ci fosse stata la guerra. Questo significa che dalla guerra possono anche nascere cose buone?
No, assolutamente. La guerra non può mai produrre cose buone.
In uscita il 14 marzo, Il figlio dell'altra è distribuito da Teodora Film.