A leggere le recensione d'epoca di Butch Cassidy, ci si rende conto di quanto sia difficile, alle volte, riconoscere un classico quando lo si vede. “Il film parte in maniera promettente”, scriveva il guru della critica americana Roger Ebert. Ma poi la storia perdeva mordente, arenandosi in un lungo inseguimento. E il finale, secondo lui, copiava Gangster Story senza motivo: “Non ci crediamo, e usciamo dal cinema chiedendoci dove sia finito quel grande film che stavamo vedendo fino a un'ora prima”.
Bisogna contestualizzare Butch Cassidy in un periodo in cui la New Hollywood stava esplodendo, e si preparava a scardinare del tutto le regole del cinema americano classico. Ebert cita non a caso Gangster Story: i paralleli tra i due film sono innegabili, e a Warren Beatty era stato persino offerto il ruolo di Sundance Kid. In comune, i due film hanno l'ossessione per la libertà che porta inevitabilmente a una disfatta, alla morte. Siamo negli anni della controcultura hippie, in cui la vita “normale” – quella del lavoro 9 to 5, delle tasse, del praticello dietro casa dove fare le grigliate e delle domeniche in chiesa – è diventata uno spettro soffocante, da cui fuggire. Siamo negli anni in cui lasciarsi alle spalle la società e i suoi obblighi per anelare a una vita libera, “fuori dalla griglia”, è diventato il massimo valore.
Ed ecco che la sceneggiatura di William Goldman, scritta dopo una lunga ricerca ma con la voglia di non essere troppo fedele agli eventi storici, cade a fagiolo. Goldman, che qualche anno dopo avrebbe scritto Papillon, Tutti gli uomini del presidente e Il maratoneta, allora dovette lottare non poco per farsi produrre uno script che spiazzò completamente gli Studios. Non si era mai visto un western in cui i due eroi, o anti-eroi, scappano per evitare la giustizia. “È quello che è realmente accaduto”, argomentava Goldman. “Non me ne frega niente”, ribatteva Mr. Studios. “John Wayne non scappa!”.
Ma John Wayne era appunto una cosa del passato. Il cinema si stava trasformando, stava diventando meno manicheo e più interessato al reale. Questo non vuol dire che Butch Cassidy dimentichi di essere un western: la forza del Mito è ben presente nelle figure semi-idealizzate di Butch e Sundance Kid, che, al di là di rapinare per vivere, sono dei bravissimi guaglioni. Rispettano le donne, cercano di uccidere il meno possibile, vivono un'esistenza da cavalieri erranti che conoscono a menadito ogni centimetro di ogni canyon del Vecchio West. Sono dei modelli a cui aspirare nella fantasia escapista definitiva.
Eppure, sotto traccia, si agita la tragedia umana. L'Uomo, sembra dirci la sceneggiatura di Goldman, non è mai realmente libero. Perché anche la libertà è un lavoro e, come ogni cosa, ha un prezzo. E perché è la società stessa a non tollerare chi vuole evitarla, e raduna gli anticorpi per espellerlo come fosse un virus.
La forza di Butch Cassidy and the Sundance Kid, il motivo per cui non è stato capito all'epoca, sta proprio nella sua struttura unica, che rifugge le regole canoniche del cinema. È vero: dopo lo sprint iniziale il ritmo rallenta, si allenta ed espande, per raccontare il lungo inseguimento tra Butch e Sundance e una super-posse di uomini di legge ingaggiati da un imprenditore delle ferrovie. Subito dopo il film svia ancora una volta, portando i suoi protagonisti in Bolivia (“È quello che è realmente accaduto!”). Ma rivedendolo adesso ci si rende conto che questo non è un punto debole. È semmai un segnale di stile, ciò che rende Butch Cassidy un western sui generis, un film unico e originale.
Goldman e il regista George Roy Hill mescolano western e commedia come non era mai stato fatto prima. I dialoghi tra Butch e Sundance sono brillanti, la colonna sonora di Burt Bacharach (premiata con l'Oscar, uno dei quattro vinti dal film) evita accuratamente atmosfere da frontiera per cercare il vaudeville. L'influenza del film sulla virata comica del western italiano, oggi, è più che mai evidente, a partire proprio dalla colonna sonora. Rivedendo la scena di Paul Newman in bicicletta, con Raindrops Keep Fallin' on My Head in sottofondo, è impossibile non pensare alle acrobazie di Terence Hill in Trinità e affini.
E poi ci sono loro. Paul Newman e Robert Redford sono una coppia cinematografica perfetta. George Roy Hill li avrebbe diretti qualche anno dopo in un altro classico, La stangata. Qui, questo trio fa le prove generali, azzeccando un tono brillante sospeso tra umorismo e tragedia, che mette al centro un'amicizia virile sincera che sfocia neanche tanto velatamente nell'amore. Il rapporto a tre con Etta Place (Katharine Ross) guarda alle teorie sull'amore libero hippie e, ancora una volta, frantuma le convenzioni.
In questi giorni, al cinema c'è il nuovo film di Quentin Tarantino, C'era una volta a... Hollywood. A parte essere ambientato nell'anno di uscita di Butch Cassidy e avere una coppia di protagonisti biondi che ricorda molto quella composta da Newman e Redford, il film a un certo punto presenta una scena in cui il regista Sam Wanamaker (Nicholas Hammond) chiede alla costumista di vestire Rick Dalton (Leonardo DiCaprio) con abiti adatti sì a un western, ma in grado di non stonare a un evento sociale losangelino del 1969.
Ecco, la stessa cosa si può dire del look del film di Hill: è un western imbevuto di modernità, che parla dell'epoca in cui è uscito riallacciandosi a temi tradizionali molto cari alla società americana. E riesce così a presentare la rivoluzione culturale non come un momento di rottura, una sbandata momentanea da soffocare con la forza del rigore morale, ma come un ritorno alle radici libere di una società nata sulla frontiera di un nuovo mondo. Che è poi esattamente quello che tentava di dire Jimi Hendrix mentre suonava The Star Spangled Banner a Woodstock quello stesso anno. E anche questa è una storia vera.