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Andy Garcia tra cinema e tv

Andy Garcia, protagonista di una grande Masterclass, si racconta al Roma Fiction Fest.

Andy Garcia

09.07.2010 - Autore: Ludovica Sanfelice
Si presenta sull’Orange Carpet del Cinema Adriano di Roma con grossi baffi e occhialini aranciati. In perfetto orario. Ha un’aria da generale sudamericano - però molto più simpatico - e in effetti nel corso dell’incontro confermerà che il suo nuovo look è imposto dal copione di un film che sta girando in Messico. E’ qui per una Masterclass dedicata a lui, ad Andy Garcia, alla sua carriera, al mestiere dell’attore, e anche per ritirare l’Exellence Award che il Roma Fiction Fest ha voluto conferirgli sulla base dalla crescente relazione di amicizia che da qualche anno lega piccolo e grande schermo.

Si comincia dal principio, da cosa lo abbia spinto verso la recitazione, e la star, sorseggiando una tazza di caffè, si lascia andare con grande disponibilità al racconto.
“Quando ero piccolo andavo al cinema come tutti. Mi piaceva. Ma soprattutto  mi dedicavo allo sport, al basket e al baseball che occupavano gran parte delle mie giornate fino a che a 18 anni mi sono ammalato e non ho potuto praticarli per mesi. E’ stato lì che il mio interesse per il cinema è cresciuto e visto che trovava campo libero mi ha infettato come un virus. Alla fine delle cure avevo un’altra malattia. Erano gli anni sessanta e gli eroi avevano i volti di Sean Connery, Steve McQueen, Peter Sellers, James Coburn. Oh come mi piaceva Coburn, avrei voluto lanciare coltelli con la destrezza che aveva ne ‘I Magnifici Sette’. La fortuna ha poi voluto che interpretassi il James Coburn della situazione ne ‘Gli Intoccabili’.
Come rimpiango il vecchio cinema. Il Neorealismo italiano, soprattutto, e il cinema americano della Nuova Hollywood. Ecco negli anni settanta quei film erano prodotti dagli Studios. Oggi è difficile immaginarlo. Se vuoi fare un certo cinema devi muoverti fuori dagli Studios. E tutt’al più venderglielo in seguito. ‘City Island’ ad esempio è stato scartato da tutti e adesso desta interesse perché è nelle sale da 15 settimane. Il sistema è radicalmente cambiato, la produzione ha limitato il proprio raggio a blockbuster concettuali come ‘Avatar’ o ‘Il Signore degli Anelli’ allontanandosi dalle storie che adesso si muovono verso la TV, soprattutto verso i canali via cavo che sono ben disposti ad investire su tv movie e miniserie. La sensibilità che caratterizzava l’arte cinematografica si è come dispersa e a raccogliere quel patrimonio ci pensano la televisione e le produzioni indipendenti. Hollywood ha scelto di concentrarsi su target più giovani e questo ha creato una spinta massiccia verso la tv che cattura storie in cui può identificarsi un pubblico più ampio. Io stesso ora vado molto poco al cinema. E se lo faccio è per accompagnare mio figlio a vedere ‘Toy Story 3’ che è un capolavoro a tutti gli effetti ma non si può dire che sia stato concepito per un pubblico della mia età. Spiderman 3, 4, 5 li ho lasciati direttamente perdere”
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Cosa pensa della diffusione del 3D?
“Come attore potrebbe essere una sfida interessante ma da regista scelgo le emozioni, sono interessato all’aspetto umano”.

Ci vuol parlare delle sue esperienze televisive?
“Adesso come produttore mi sto dedicando ad un progetto di lunga serialità ancora senza titolo e in autunno un altro documentario da me prodotto,  ‘Cachao: Uno Màs’ (dedicato a Cachao Lopez, grandissimo musicista cubano)  andrà in onda sul canale pubblico PBS all’interno di ‘American Masters’, un ciclo che prevede la trasmissione di due episodi all’anno. L’altro episodio, per farvi capire la statura del genio di Cachao, sarà dedicato a John Lennon…
Come attore invece ho avuto con la tv un rapporto molto limitato. Ho fatto delle parti piccole piccole all’inizio della carriera. Il mio obiettivo è sempre stato il cinema, per questo mi sono trasferito da Miami a Los Angeles. Ricordo che mi offrirono delle parti in qualche lunga serie ma all’epoca i confini tra cinema e tv erano molto marcati e se facevi tv rischiavi di farti sfuggire per sempre il cinema. Per circa sette anni non ho lavorato né all’uno né all’altro. Malgrado avessi bisogno di soldi però ho deciso di fare questo sacrificio per inseguire il mio vero sogno”
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E la disciplina sportiva l’ha aiutata in questo?
“No direi piuttosto che mi ha aiutato la ‘testa dura’ (lo dice in italiano, n.d.r., battendosi il capo). Però ammetto che la disciplina sportiva mi ha aiutato in altri momenti. Ricordate la scena della carrozzina ne ‘Gli Intoccabili’? (-E chi se la scorda- n.d.r.) Mentre giravamo quella scena lo stuntman si è avvicinato e mi ha chiesto timidamente se pensavo di riuscire a precipitarmi giù dalle scale, infilarmi in scivolata con le gambe sotto la carrozzina e nello stesso momento lanciare la pistola a Kevin Costner. Si, credo di sì, ho risposto, e ho semplicemente giocato a baseball. Quello che vedete in quella scena è ciò che in gergo si chiama “takout slide” (scivolata sulla base). Diciamo quindi che se il bambino della carrozzina è salvo è grazie ai miei allenamenti sportivi!”

Quale ruolo ha desiderato di più?
“Quando cominci a studiare recitazione, prendi tutto tremendamente sul serio. All’epoca era uscito ‘Il Padrino’ che per me è in assoluto uno dei film più belli della storia del cinema. Sentivo di essere legato a quel film, avrei voluto interpretarlo io ecco.
Anni dopo ero sul set di ‘Affari Sporchi’ (Internal Affairs) con Richard Gere. Avevo alle spalle diversi film e quel ruolo era stato addirittura sviluppato per me. Avevo un contratto con la Paramount. Insomma pensavo di non poter desiderare di più. Un giorno Frank Mancuso Senior, grande capo della Paramount, mi invita a pranzo e mi dice che ha parlato con Francis (Ford Coppola) perché vuole che mi assegnino il ruolo di protagonista in 'Il Padrino parte III'. Quasi ci resto secco. Già negli anni 80 -il film è poi stato realizzato nel 90- girava voce che Coppola voleva realizzare il terzo capitolo della saga. Io come tutti speravo di poterlo interpretare perché sentivo una grande affinità per quel film, che sia stata una premonizione? Allora, comunque, circolavano i nomi di Stallone e Travolta, ma il progetto è andato a monte. E menomale perché io in quel momento facevo il cameriere!”

Una grande passione la lega anche alla musica…
“Certo, sono cubano (lo dice in spagnolo)! Cuba E’ musica, e ce l’ho nel sangue. Ho studiato percussioni fino a 14-15 anni ma ho sempre avuto un’attrazione per il pianoforte. Quando con la mia famiglia ci siamo trasferiti in America non c’erano soldi per un piano e ho accantonato l’idea. Anni dopo mi è arrivata la sceneggiatura di ‘La città perduta’, un tomo di 300 pagine che mi ha spaventato, ma quando ho scoperto che il protagonista in privato suonava il piano mi sono detto: finalmente! Adesso imparo. E ho cominciato a strimpellare prima con due dita, poi con quattro. Ci sono voluti 16 anni per trovare i finanziamenti per quel film. Il Dio della musica aveva deciso che prima dovevo imparare bene. A quel punto però ho composto la colonna sonora!”

Sente molto l’appartenenza alla sua terra d’origine?
(Risponde in spagnolo) “Soffro per quella terra. Sono cubano. Cubano esiliato. Da cinquant’anni il mio paese è sottoposto a dittatura. Una sola persona decide. Soffro”.

Altra passione la regia…
“Si la regia è sempre stato un pallino. Potrei continuare a fare il regista e smettere di fare l’attore e mi sentirei comunque sinceramente realizzato. Mi piacciono i prodotti indipendenti. Amo dipingere per conto mio senza che nessuno si intrometta. Ciò che mi preme è realizzare una storia con la libertà di sbagliare, è questo il viaggio che mi piace. Adesso mi sto dedicando a un progetto sul periodo che Hemingway passò a Cuba e della sua amicizia con il pescatore Fuentes. Hemingway sarà interpretato da Sir Antony Hopkins, Fuentes sarò io. Il budget è abbastanza elevato perche si tratta di un’opera in costume. Spero davvero che non ci vogliano altri 16 anni. Per fortuna, come vi ho detto, ho la ‘testa dura’”.