Vice - L'uomo nell'ombra
Un eccezionale e camaleontico Christian Bale interpreta Dick Cheney, il vice-presidente più potente della storia americana, considerato da molti il “vero numero uno” della Casa Bianca durante l’amministrazione di George W. Bush. Il film racconta l’ascesa dell’uomo “nell’ombra”, che a poco a poco ha preso in mano le redini del gioco.
VALUTAZIONE FILM.IT
TITOLO ORIGINALE
Vice
GENERE
NAZIONE
Stati Uniti
REGIA
CAST
DISTRIBUZIONE
Eagle Pictures
DURATA
132 min.
USCITA CINEMA
03/01/2019
ANNO DI DISTRIBUZIONE
2018
di Gian Luca Pisacane
Nei titoli di coda si balla sulle note di America, la celebre canzone tratta dal musical West Side Story. “I like the shores of America, comfort is yours in America…”. Era il 1961, il sogno americano era a portata di mano, e l’intraprendenza di Kennedy teneva alto il morale. Così anche un portoricano pensava di essere nella terra promessa, nonostante il degrado, la situazione delle periferie, l’amore impossibile. Vice – L’uomo nell’ombra usa quella canzone per schernire gli Stati Uniti di G. W. Bush, per proiettare la platea nel fango.
È la storia del vicepresidente Dick Cheney: il demiurgo dietro le quinte, il manipolatore, il losco direttore d’azienda, il cospiratore, il bad guy assetato di potere. Prima il cinismo, l’interesse personale, poi l’umanità. Largo alla guerra per il petrolio in Iraq, alle torture di Guantánamo, alle follie post 11 settembre. La popolazione in crisi, Washington che risponde con falsità e intrighi. Torna alla ribalta la teoria del “potere esecutivo unitario”, quella che, per farla breve, permette a un solo uomo di comandare un Paese. Dittatura? Forse. Ma più volte il regista Adam McKay sottolinea che i veri colpevoli sono in sala, cioè la gente che elegge i suoi leader con leggerezza o ignoranza, o tutte e due le cose.
“Non vedo l’ora di andare a vedere il nuovo Fast and Furious”, dice una ragazza mentre la nazione è in “fiamme”. Poi il silenzio, ogni parola sarebbe di troppo. Ormai la fotografia degli Stati Uniti è stata scattata, non si può tornare indietro. Così McKay diventa il nuovo maestro del caos organizzato: cerca di mettere ordine, di raccontare la verità, con i toni di una commedia impetuosa, che scorre come un fiume in piena.
Dove non ci sono documenti ufficiali, McKay inventa, dà vita a dialoghi taglienti, scomoda anche Shakespeare per puntare il dito sull’assurdità della situazione. Si concentra sui dettagli per definire i suoi personaggi, sulle pause nella loro voce, sulle luci che li accompagnano. Cheney non ama stare sotto i riflettori, agisce nel buio, si posiziona sempre alle spalle di Bush. E lo sovrasta, lo massacra nell’oratoria, lo fa cadere sempre nelle sue trappole.
Tutto questo con uno stile ispirato: l’immagine di un pesce preso all’amo mentre Cheney tesse la sua tela, il movimento nervoso del piede di Bush (mentre annuncia il conflitto) che si fonde con quello di una vittima dei bombardamenti. D’altronde la sequenza di Margot Robbie, immersa nella vasca da bagno, che spiega la pericolosità di un mutuo subprime nel 2015 aveva segnato l’intera stagione. Quella era La grande scommessa, la cronaca surreale della più grande crisi di sempre, sulle orme del saggio di Michael Lewis.
Questa è un’apocalisse annunciata, dove McKay si sente padrone: mette il finale a metà del film, partono i ringraziamenti, tutti vissero felici e contenti. E poi è passata poco più di un’ora, il peggio deve ancora venire. Satira senza pietà, acuta riflessione sulla potenza, esempio di un cinema che a tratti può sembrare anche arrogante. Ma che travolge, indigna, scuote chi non vuole schierarsi. Perché il suo Dick Cheney non rappresenta il male assoluto: è uno studente rissoso, un operaio fedele, un portaborse attento, un padre di famiglia. In fondo è solo uno dei tanti, uno sfruttatore del sistema, che la macchina da presa non può lasciarsi sfuggire.