Tron Legacy
Kevin Flynn, il programmatore di videogame protagonista del Tron originale, è sparito dalla circolazione durante gli ultimi 25 anni risucchiato nello stesso mondo virtuale controllato dal Master Control Program da cui era già riuscito a evadere una volta. Nel frattempo Sam, il figlio 27enne di Flynn, parte alla ricerca del padre entrando a sua volta nella realtà parallela nascosta dentro al computer.
Quale è la strategia di marketing che spinge la Disney a
realizzare, a ventotto anni di distanza, il seguito di un
lungometraggio che all'epoca non ebbe particolare appoggio presso la
critica e (cosa più importante) non riscosse neppure un gigantesco
successo al botteghino? Che il primo "Tron"
sia oggetto di culto presso una piccola ma comunque presente cerchia di
affezionati del design e del gusto estetico degli anni Ottanta magari è
anche plausibile, ma da qui a decidere di realizzarne un secondo
capitolo dal budget che a quanto pare supera i duecento milioni di dollari, questa scelta appare abbastanza rischiosa. Visto poi l'esito del film, oseremmo affermare addirittura avventata.
La sensazione costante ed esplicita che si avverte vedendo “Tron Legacy” è quella di confusione, sotto molteplici punti di vista: il regista esordiente Joseph Kosinski dopo aver organizzato un incipit abbastanza interessante, con una prima
sequenza d'azione nel mondo virtuale molto coinvolgente, perde il senso
del ritmo inserendo nel lungometraggio tutta una serie di rallentamenti
inopportuni, dovuti soprattutto al confronto padre/figlio e ad una
strana, incomprensibile patina filosofico-new age che pervade la
narrazione affossandone la fluidità. Il regista poi inserisce
una serie di citazioni che svariano a trecentosessanta gradi senza però
essere realmente necessarie alla trama, ma servono soltanto per
solleticare il gusto cinefilo e/o geek del pubblico: si va (ovviamente…)
da “2001:Odissea nello spazio” a “Guerre stellari”, da “Avatar” a “Il Signore degli Anelli”, passando addirittura per anime storici come “Goldrake” o “Interstella 777”. Insomma, “Tron Legacy”
nella sua confezione patinata alla fine appare più come un videogioco
magari anche scintillante, ma decisamente poco equilibrato secondo
quelle che dovrebbero essere le strutture portanti di un lungometraggio, cosa che ormai purtroppo accade sempre più spesso al cinema mainstream hollywoodiano.
Altra sorpresa negativa del film è il cast di attori quasi completamente monocorde: l'unica a salvarsi, ma soltanto parzialmente, è Olivia Wilde in virtù di doti estetiche che le garantiscono una certa presenza scenica. Garrett Hedlund è invece poco incisivo sia nel carisma che nelle effettive capacità d'attore. A deludere pesantemente concorre anche il “grande vecchio” Jeff Bridges,
protagonista già del primo capitolo: in questo sequel con il suo
costume da Jedi e la sua calma zen che ostenta fastidiosamente per tutta
la storia riesce a regalarci una delle prove più stucchevoli della sua
comunque gloriosa carriera. Ma Bridges ha davvero bisogno di infilarsi
in produzioni totalmente commerciali come “Iron Man” o come questa? Ma il peggiore degli interpreti in assoluto risulta Michael Sheen,
che vestito e truccato in maniera a dir poco inappropriata scimmiotta
il David Bowie più glam nell'unica scena d'azione che gli viene
concessa, e regala agli spettatori momenti di comicità all'apparenza
tutt'altro che volontaria.
Un'ultima considerazione va poi spesa anche per le musiche dei Daft Punk: quando compongono per “Tron Legacy” la loro musica più congeniale, invece di andare dietro alle influenze esplicite dell'ultimo Hans Zimmer (quello di “Inception” tanto per intenderci) oppure di James Newton Howard, allora la colonna sonora diventa supporto a momenti davvero vibranti dell'immagine.