Parlami di te

Parlami di te

Alain è un rispettato uomo d'affari e un brillante oratore, sempre in corsa contro il tempo. Nella vita, non concede alcuno spazio alle distrazioni e alla famiglia. Un giorno, viene colpito da un ictus che interrompe la sua corsa e gli lascia come conseguenza una grave difficoltà nell'espressione verbale e una perdita della memoria. La sua rieducazione è affidata a Jeanne, giovane logopedista. Con grande impegno e pazienza, Jeanne e Alain impareranno a conoscersi e alla fine ciascuno, a modo suo, tenterà di ricostruire se stesso e di concedersi il tempo di vivere.

VALUTAZIONE FILM.IT
TITOLO ORIGINALE
Un homme pressé
GENERE
NAZIONE
Francia
REGIA
CAST
DISTRIBUZIONE
Bim
DURATA
100 min.
USCITA CINEMA
21/02/2019
ANNO DI DISTRIBUZIONE
2019
di Mattia Pasquini

Le parole sono importanti, ma non sono tutto. Contano più i significati o i significanti? A ciascuno la propria risposta, quella di Hervé Mimran in qualche maniera è racchiusa nel suo Parlami di te, commedia ispirata al libro J'étais un homme pressé: AVC, un grand patron témoigne nel quale Christian Streiff raccontò l'esperienza vissuta durante e dopo l'Ictus che lo colpì nel 2008.

Un racconto che sullo schermo vediamo iniziare con una crisi, mentre sullo sfondo la radio recita le notizie di economia. Probabilmente un messaggio subliminale da parte del regista - ammirato dal pubblico italiano solo come attore, in Troppo bella!, dato che i suoi film precedenti non sono mai arrivati da noi - che si diverte ad accompagnare le immagini con scelte musicali tanto didascaliche quanto celebri (Casta Diva, As Time Goes By, Everybody's Talking, Father and Son e Don't Think Twice, It's All Right).

Una dinamica che rimanda a quella principale, nella quale il povero Alain (un convincente Fabrice Luchini) si trova a dover ricomporre una frattura tra ragionamento ed espressione, tra quel che vorrebbe comunicare e quel che agli altri arriva. Un concetto interessante, soprattutto se opposto all'apparente e forzata normalità alla quale ha costretto la propria vita e l'anaffettività che impone alle persone a sé più vicine.

Si sa, le crepe portano facilmente alla rottura, inutile fingere di non vederle… E ogni fase di rifiuto deve finire, prima o poi. Il problema è che la ricostruzione di sé, come uomo e come padre, il reinserimento nel mondo del lavoro (che troppo a lungo occupa la narrazione, riducendo la parte catartica a una accelerazione finale), l'adattamento e l'accettazione sono tutti filtrati attraverso una estetica smaccata e accondiscendente. Una serie di immagini palesemente stereotipate mirano a costruire un effetto finale nel quale via via si avverte una fastidiosa mancanza di sincerità...

Dalle anomalie cronologiche alla sensibilità animalista, il richiamo a un istintivo pietismo per anziani e malati o la poco plausibile (per quanto giustificabile) reazione della figlia trascurata, fino alla retorica maternalista variamente declinata non controbilanciano i momenti tragicomici legati alla malattia (tra i "prendere arance e divano per illuminare la suora" e il "mi riposerò quando sarò porco") e i geniali e più che coerenti titoli di coda.