Norwegian Wood
L'indolente Toru è continuamente assalito dal dubbio di aver sbagliato o poter sbagliare nelle sue scelte di vita e di amore, ma è anche guidato da un ostinato e personale senso della morale e da un'istintiva avversione per tutto ciò che sa di finto e costruito. Diviso tra due ragazze, Naoko e Midori, che lo attirano entrambe con forza irresistibile, Toru non può fare altro che decidere. O aspettare che la vita, e la morte, decidano per lui.
Lei, lui e l'amico. Lui improvvisamente si suicida, rimangono l'amico e
lei. Inizialmente non parlano di quanto è successo, passano un anno
senza vedersi, poi si incontrano a Tokyo e lì passano una sorprendente
serata di sesso. “Lei è vergine”, si rende conto quello che, se un tempo
era semplicemente l'amico, ora è diventato l'amante. Ma come è possibile che dopo tanti anni di relazione con il suicida, lei sia ancora vergine?
Il bandolo della matassa di “Norwegian Wood”, tratto dall'omonimo libro di Haruki Murakami (“Norwegian Wood – Tokyo Blues”), è proprio nella risposta a questo
interrogativo. Non c'è nulla di particolarmente misterioso dietro, anzi
un semplice problema di lubrificazione (almeno per come lo propone il
film). A nessuno degli amanti però sembra venire in mente qualche
rimedio, e così la psiche di lei rimane devastata dal senso di colpa e
dall'impossibilità di raggiungere il piacere. Se il libro era un lungo
flashback sulla difficoltà di diventare adulti, il libro vive di labili
spiegazioni di voci fuori campo, riflessioni che non trovano linfa o
approfondimento nel racconto e che muoiono sul posto, senza sviluppo. Si
parla di sesso senza eros, di amicizia senza condivisione, di amore
come sentimento caduto dall'alto e non costruito e vissuto. I
personaggi dicono a parole ciò che provano, e per quanto ci si possa
aspettare dalla cultura giapponese un diverso modo di rapportarsi alle
emozioni, forse più freddo e riservato quando si tratta di passione e
voglia di vivere, comunque qui nulla appare naturale, ma solo forzato.
Si assiste a un continuo di silenzi e dialoghi in cui gli
interlocutori, quando si parlano guardano in due direzioni diverse o
stanno addirittura di spalle. L'ambientazione storica durante i
movimenti studenteschi degli anni '60 e 70, vengono mostrati sullo
sfondo senza alcun legame con i personaggi, rimanendo anch'essi
piuttosto inutili. Il risultato è che tutto appaia freddo, senza alcun
guizzo né di regia né per quanto riguarda gli attori (tra cui la Rinko Kikuchi candidata all'Oscar per “Babel”).
Rimane giusto una bella fotografia e una colonna sonora che, per quanto
spesso utilizzata eccessivamente, quantomeno rende più sopportabili
tante scene che sarebbero potute essere tagliate dal montaggio finale.