Noi credevamo
Tre ragazzi del sud Italia, in seguito alla feroce repressione borbonica dei moti che nel 1828 vedono coinvolte le loro famiglie, maturano la decisione di affiliarsi alla Giovine Italia di Giuseppe Mazzini. Attraverso quattro episodi che corrispondono ad altrettante pagine oscure del processo risorgimentale per l'unità d'Italia, le vite di Domenico (Luigi Lo Cascio), Angelo (Valerio Binasco) e Salvatore (Luigi Pisani) verranno segnate tragicamente dalla loro missione di cospiratori e rivoluzionari, sospese come saranno tra rigore morale e ... [continua a leggere]pulsione omicida, spirito di sacrificio e paura, carcere e clandestinità, slanci ideali e disillusioni politiche.
Il Risorgimento, la storia d'Italia dal 1828 al '72, attraverso le
vicende di tre personaggi, prima ragazzi, poi uomini ed infine, ma non
tutti, anche vecchi, che vivono l'aspirazione di vedere il proprio Paese
unito e repubblicano. Il tentativo di Mario Martone, regista e co-sceneggiatore assieme al Giancarlo De Cataldo di “Romanzo Criminale”, è senza dubbio ambizioso.
Mai il cinema italiano aveva cercato la via della saga nel tempo
per raccontare la nostra indipendenza, mai lo aveva fatto con una
durata filmica così lunga: tre ore e ventiquattro minuti. Ed in verità non lo fa neanche adesso, non almeno a volere essere pignoli. “Noi credevamo” è infatti un buon, in certi punti ottimo, sceneggiato televisivo. Non cinema.
E per cinema intendiamo la capacità e la voglia di dire tutto il
necessario cercando di evitare la ridondanza e la staticità dei
dialoghi, cercando nelle immagini, forme che da sole svolgano una
funzione comunicativa, senza essere didascalici, avendo un senso del
ritmo che sappia essere un flusso non sfilacciato di situazioni, ma
coeso (o almeno quasi), con un'idea di rappresentazione che non sia solo
quella di lavorare scena per scena per arrivare alla fine del racconto.
Purtroppo, in "Noi credevamo",
a volere peggiorare le cose, per un italiano (forse per uno straniero
sarebbe diverso) è ancora più facile parlare di “prodotto televisivo”,
visto come la fotografia e l'utilizzo delle musiche, anche in questo
caso, ricordino le varie storie in più puntate di Rai e Mediaset. Il
film di Martone non è neanche un “La meglio gioventù” un secolo prima, non c'è la stessa cura né per la regia, né per la sceneggiatura. I
personaggi rimangono rinchiusi nei loro stereotipi, costretti a dire a
parole ciò che provano e a non fare mai nulla che vada al di là della
missione narrativa assegnatagli: quella di essere non uomini a tutto
tondo, ma uomini della Storia (seppur di fantasia, almeno per i
protagonisti) che hanno il dovere di rappresentare.
Il cast non spicca per meriti, limitato prima di tutto dalla
sceneggiatura ancor prima dalle capacità recitative degli interpreti
(anche perché Servillo, la Inaudi e Riondino non sono gli ultimi
arrivati così come LoCascio che però si sta un po'chiudendo in certi
ruoli idealistici). Messi in chiaro i difetti, passiamo ai pregi. Che
non mancano, visto che Martone riesce, seppur dopo solo due ore, a dare fluidità al proprio racconto,
tirando le fila di vari lacci della nostra storia passata senza
banalizzazioni e retorica. Merito da condividere sicuramente con
l'omonimo libro di Anna Banti (pubblicato nel '67) a
cui è liberamente ispirato (e che riprende soprattutto nel finale), ma
anche della capacità del regista di dare un immaginario visivo al tutto.
Il contrasto tra le varie strategie per l'Unità, l'idealismo spinto
all'estremo, la frattura di fondo, mai sanata, tra popolo e
intellettuali, il ruolo ambiguo dei Savoia e di Torino, quello spontaneo
di Garibaldi e fanatico di Mazzini: c'è tanta carne al fuoco, e
probabilmente, per le scolaresche la visione sarà d'obbligo nei prossimi
anni. Nonostante questo, non si capisce la necessità di mettere in
concorso ufficiale a Venezia un film così potenzialmente interessante
per noi italiani, quanto avaro di “cinema” per gli stranieri e la
giuria.