Lo Zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti
Affetto da una grave disfunzione renale, zio Boonmee ha scelto di passare i suoi ultimi giorni in una casa di campagna, circondato dalle persone che ama. Lì, gli appare il fantasma della moglie morta anni prima, che inizia a prendersi cura di lui. E il figlio da tempo perduto fa il suo ritorno a casa in una forma non umana. Riflettendo sulle ragioni della sua malattia, Boonmee attarversa la giungla con tutta la famiglia, diretto verso una misteriosa grotta in cima a una collina: il luogo dove è nato per la prima volta...
di Andrea D'Addio
C'è sicuramente lo zampino di Tim Burton, presidente della giuria quest'anno alla Croisette, dietro alla vittoria di “Uncle Boonmee Who Can recall His Past Lives” del thailandese Apichatpong Weerasethakul.
Difficile che un film così lontano dal gusto generale di qualsiasi tipo
di pubblico, possa aver convinto tutta la giuria. Più logico pensare
che i tanti elementi fantastici riletti in chiave malinconica presenti
all'interno della pellicola, possano aver richiamato fortemente alla
memoria del regista americano i suoi primi, poetici lavori.
“Uncle Boonmee Who Can recall His Past Lives”
è il classico film che, se un critico lo consigliasse senza fare
prendere precauzioni, rischierebbe di ritrovarsi uno spettatore
inferocito sotto casa (sempre che si sia ancora ripreso). E ci
fermiamo qui, perché si parla di un lungometraggio che comunque può
avere il merito, per chi ne soffre, di dare un buon contributo alla
lotta all'insonnia.
E' vero che ci sono uomini scimmia, fantasmi, principesse mostruose e
pesci parlanti, ma tutti questi personaggi sono inseriti in un contesto
paralizzante per staticità narrativa e antilinearità. Camere fisse,
dialoghi monotono, tante osservazioni sulla natura. La base su cui si
poggia il tutto è l'idea della reincarnazione, il fatto che non si muoia
mai davvero, ma si rinasca continuamente sotto nuove forme, non per
forza umane, ma anche bestiali e vegetali. In conferenza stampa Apichatpong ha
persino affermato che il nostro protagonista in alcune sequenze possa
essere non il personaggio parlante, bensì una delle foglie del ramo
sullo sfondo.
Ma non si tratta solo di buddhismo. Su questa storia tratta da un libro
degli anni '80, il cineasta tailandese ci inserisce anche i suoi ricordi
sia cinematografici (da qui gli scimmioni che fanno tanto “horror
thailandesi anni '80”) che personali (come il padre malato di fegato, di
cui sono replicati tutti gli attrezzi per la cura).
Il risultato è il pieno spiazzamento di uno spettatore che si
troverà di fronte, più che ad una proiezione, ad un'esperienza mistica.
Servirebbe qualcuno che lo attende all'uscita per spiegargli i
significati nascosti dietro ad ogni situazione ed immagine. Oltretutto
c'è da sapere che il lungometraggio è solo una delle parti di un
progetto più ampio sullo stesso Uncle Boonmee, e consta di due
cortometraggi (“A Letter to Uncle Boonmee” e “Phantoms of Nabua”)
e di un'installazione d'arte creata ad hoc. Insomma, si tratta di
un'opera ambiziosa. Decidere di proiettarlo nelle proprie sale, sarebbe
davvero un bell'atto di coraggio. Forse più dello stesso film.