

La regola del silenzio

Jim Grant, uno degli ultimi fuggitivi dei tempi del Vietnam, ? ricercato per omicidio dopo una rapina finita male nel 1974. L'uomo si imbatte in un giovane reporter in cerca di una storia e dovr? abbandonare anni di vita da clandestino per un'avventura on the road attraverso l'America alla ricerca del suo passato.

Robert Redford è uno che bisogna ammirare per forza. È stato una delle più grandi
stelle del firmamento hollywoodiano e invecchiando ha assunto una
gravitas completamente inedita, diventando il paladino del cinema
indipendente americano con il suo Sundance e proseguendo in un discorso
cinematografico fatto sì di grandi nomi, ma percorso da tematiche
importanti che lo elevano al di sopra di tutti i grossi film di Studio.
The Company You Keep rientra perfettamente in questo cammino. Il film – interpretato da un cast stellare che annovera Shia LaBeouf, Stanley Tucci, Julie Christie, Susan Sarandon, Brendan Gleeson, Nick Nolte, Richard Jenkins e lo stesso Redford – ha il pregio di raccontare argomenti “pesanti” con una leggerezza narrativa da manuale. Redford si collega direttamente a un grande classico anni Settanta da lui interpretato, Tutti gli uomini del presidente,
e sceglie come protagonista un giovane reporter (LaBeouf), intenzionato
a scovare un ex membro dell'organizzazione di sinistra eversiva Weather
Underground. L'uomo (Redford) si è nel frattempo rifatto una vita come
avvocato e padre di famiglia, ma il passato torna a bussare alla sua
porta quando una dei suoi vecchi compagni viene arrestata dall'FBI.
C'è la volontà di difendere il buon nome del giornalismo, non esente da
critiche (il personaggio di LaBeouf sembra agire più per la gloria dello
scoop che per idealismo) ma visto come unico mezzo per trovare la
verità ed esporre gli errori del passato. Salta subito in mente un altro
film visto al Festival, Disconnect: lì, si perpetrava il solito stereotipo del giornalista sfruttatore, qui al contrario si riconosce l'importanza dell'informazione.
È interessante anche come, in un'epoca in cui il cinema americano va a
caccia di Osama Bin Laden e dei suoi colleghi, Redford punti il radar
sul terrorismo “di casa”.
Peccato che la tensione che si accumula per tre quarti della pellicola
si sgonfi repentinamente in un terzo atto che tira il freno a mano e
risolve tutto a tarallucci e vino. Quasi Redford avesse paura di portare
tutto alle estreme conseguenze, accontentandosi di un finale per
famiglie che configura il film più come un dramma che come un thriller
politico. Resta un'opera discreta che intrattiene con classe, ma il
cinema di denuncia anni Settanta a cui si rifà è ben lontano, e non solo
nel tempo.
di Marco Triolo