La città ideale
Michele Grassadonia è un fervente ecologista. Molto tempo fa ha lasciato Palermo per trasferirsi a Siena, che lui considera, tra tutte, la città ideale. Da quasi un anno sta portando avanti un esperimento nel suo appartamento: riuscire a vivere in piena autosufficienza, senza dover ricorrere all'acqua corrente o all'energia elettrica. In una notte di pioggia, Michele rimane coinvolto in una serie di accadimenti dai contorni confusi e misteriosi. Da questo momento in poi, la sua esperienza felice di integrazione gioiosa nella città ideale comincerà a vacillare.
Maniacale e ossessivo. Dall'incipit alla trattazione, fino alla
definizione del personaggio principale, non a caso coincidente con il
regista. Ovviamente Luigi Lo Cascio. E' lui Michele,
ecologista convinto di origine palermitana, ma trapiantato a Siena – la
“città ideale” (non si sa bene perché) – dove conduce un esperimento su
se stesso: vivere un anno senza acqua corrente ed elettricità.
La sua presentazione è affidata alle prime scene, nelle quali si compone un affresco di singolarità (sistema idraulico alternativo compreso) e paradossi che non potrà strappare un sorriso. Quello stesso su cui si conta per aumentare l'effetto di straniamento che va crescendo via via che si sviluppa la vicenda.
Un incidente, una serie di casualità - il tutto accresciuto da una
incredibile naivetè di Michele stesso alle prese con forze dell'ordine,
giustizia e opinione pubblica – concorrono alla costruzione di una
storia difficile non definire kafkiana e che ricorda (con le debite
proporzioni) il 'Detenuto in attesa di giudizio' di Sordi e Loy.
Tutto è calibrato su piccole dimensioni. Dalla location ai personaggi,
pochi e ben caratterizzati, anche la scelta delle inquadrature e la
scenografia restano volutamente minimali, sia per evidenziare
ulteriormente un ottimo Lo Cascio - costantemente padrone della scena - sia l'altro protagonista del film: la parola.
Nel senso di racconto, di codice di comunicazione; con le insite
riflessioni su realtà e invenzione, naturalità e strumentalizzazione
della stessa, quanto della verità, spesso lontana dall'esserlo “in sé”
rispetto al “per sé (stessi)”, quando non addirittura fine a se stessa.
Un loop intrigante, ma troppo cerebrale, che forse avrebbe affossato
definitivamente un film già fortemente estetizzato di suo, che invece
scorre – con leggera lentezza – verso una conclusione aperta, ma serena.
Non esente, però, dal rischio di una interpretazione che potrebbe
vanificare molte delle tesi di partenza dello stesso Michele.
di Mattia Pasquini