Jimi: All Is by My Side

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Jimi, e non serve un cognome: arriva la musica. Lo stile inconfondibile che cambiÒ il destino del rock.Il regista John Ridley riporta in vita l’icona mondiale che trasformÒ una chitarra nel simbolo di una generazione, tanto forte da spezzare ogni catena. Per dipingere un mito, Ridley decide di raccontare il talento di Jimi e il cammino che lo rese tale, soffermandosi su un anno cruciale: dall’incontro nel 1966 con la sua amica e mentore Linda Keith fi no al giorno prima dell’indimenticabile esibizione di Monterey nel 1967, dove il musicista di Seattle, dando fuoco alla sua chitarra, entrÒ nella leggenda. Da quel giorno il rock non sarebbe piÙ stato lo stesso. Dal regista Premio Oscar® per la sceneggiatura di 12 anni schiavo, un fi lm che vede il musicista AndrÉ 3000 (nome d’arte di AndrÉ Benjamin) nel ruolo che nessuno fi nora aveva osato interpretare.

VALUTAZIONE FILM.IT
TITOLO ORIGINALE
All Is by My Side
GENERE
NAZIONE
Stati Uniti
REGIA
CAST
DISTRIBUZIONE
I Wonder Pictures
DURATA
118 min.
USCITA CINEMA
18/09/2014
ANNO DI DISTRIBUZIONE
2014
È possibile raccontare un grande musicista senza includere la sua musica? Sembra una domanda paradossale, eppure È il quesito che si È trovato ad affrontare il regista e sceneggiatore John Ridley (premio Oscar per lo script di 12 anni schiavo) quando ha deciso di realizzare Jimi: All Is By My Side, biopic di una delle piÙ grandi stelle nel firmamento del rock, Jimi Hendrix.

Il problema sta nel rifiuto da parte della fondazione Hendrix di concedere i diritti per l'utilizzo delle canzoni-simbolo del chitarrista. Ridley si È dovuto cosÌ ingegnare per lavorare intorno alle esibizioni live di Hendrix – importantissime per comprenderne il genio ineguagliato alla sei corde – senza mostrarle davvero. Si dice che la necessitÀ aguzzi l'ingegno, e certamente Ridley tenta in tutti i modi di lavorare con i limiti che gli sono stati imposti, eppure la mancanza di brani come “Hey Joe” e “Foxy Lady” si sente eccome.

In un certo senso, Ridley È encomiabile per come tenta di realizzare un biopic atipico, scevro da tutta la retorica che normalmente si associa a questo tipo di produzioni. Eppure, un conto È tentare un approccio minimalista, un conto mancare il bersaglio e non riuscire a comunicare minimamente il genio del piÙ grande chitarrista di sempre. E questo È dovuto principalmente a quell'impossibilitÀ di mostrare in maniera corposa il lato live di Hendrix di cui parlavamo prima.

Certo, la prima parte del film – ambientato nel corso dell'anno fondamentale di Hendrix, il 1966/67 che lo vide esplodere sulla scena internazionale dopo il trasferimento a Londra – non necessita dei pezzi famosi, perchÉ Hendrix non li aveva ancora composti. Ma piÙ andiamo avanti, piÙ si palesa la mancanza: Hendrix si prepara alla sua apparizione al festival di Monterey, infiamma i pubblici inglesi con le sue performance roboanti e innovative, viene descritto da tutti come una “futura rock star”. Eppure nessuno di questi concetti viene veicolato nel film, ciascuno È dato quasi per scontato e non si ha alcuna sensazione di un crescendo drammatico e artistico. L'unica scena che fa sperare È quella in cui Hendrix improvvisa un'esecuzione esplosiva di “Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band” davanti a un pubblico che include i Beatles. Ma È il solo momento esaltante del film.

Non potendo rivolgersi al lato musicale di Hendrix, Ridley decide di incentrare il film sul rapporto che l'artista ha avuto con tre donne (Imogen Poots, Hayley Atwell e Ruth Negga) e sulla sua personalitÀ quasi bambinesca, la sua attitudine pacifica e distaccata, puntellata da sfoghi di rabbia violenta (sempre sotto effetto di alcool o sostanze). Ne esce un ritratto anche interessante, quello di un uomo che, nonostante lo status di icona, si faceva influenzare un po' da tutti nelle scelte piÙ importanti. Ma È troppo poco per farne un film di due ore senza aggiungere altra carne al fuoco.

Ridley gira con stile documentaristico, operando tagli netti tra una scena e l'altra a volte nel mezzo di un dialogo. AndrÉ Benjamin, rapper degli Outkast, interpreta Jimi con naturalezza e il distacco richiesto, anche se a volte risulta troppo piatto. Indiscutibili, invece, le sue doti di chitarrista, che riescono almeno a vendere le poche scene in cui gli È permesso esibirle. La sensazione È che Jimi sia un'occasione sprecata, il tentativo di fare qualcosa di diverso che perÒ, infine, non È necessariamente migliore dei “soliti” biopic musicali, dove almeno si respira l'energia che i migliori artisti sono in grado di scatenare sul palcoscenico.

Marco Triolo