In un mondo migliore
Il dottor Anton, che opera in un campo profughi in Sudan, torna a casa nella monotona tranquillità di una cittadina della provincia danese. Qui si incrociano le vite di due famiglie e sboccia una straordinaria e rischiosa amicizia tra i giovani Elias e Christian. La pellicola vince il Premio Oscar come miglior film straniero alla 83ma edizione degli Academy Awards.
All'Occidente piace immaginarsi come un modello di civilizzazione da
esportare, ama vedersi come un mondo migliore a cui aspirare, ma Susanne Bier si prende la briga di dissentire o per lo meno insinuare il dubbio, di
alzare la mano e chiedere conto delle contraddizioni che la nostra
società produce, o meglio ancora che la nostra natura contempla,
azzardando l'accostamento tra un conflitto tribale africano e un
episodio di bullismo in Danimarca. Si aprono così le porte di un
melodramma morale che perlustra diverse forme di violenza e che si
interroga sulla possibilità di ristabilire l'ordine del civismo sul
caos, sull'ignoranza, sulle offese gratuite, sulle prevaricazioni
quotidiane, le prepotenze, sulle ferite inflitte anche
involontariamente, su quelle procurate per debolezza, sulla paura, la
rabbia, la perdita. Purtroppo l'educazione ha un ruolo importantissimo
ma parziale se gli stimoli che arrivano da tutte le parti viaggiano in
direzione contraria. Non possiamo davvero illuderci di essere immuni a
questo caos, come se sul mondo si potesse esercitare qualche forma di
dominio; non possiamo credere di escludere noi e i nostri figli dalle
imprudenze o dal contatto con un universo che, anche dietro la placida
eleganza di una ricca cittadina nordica, sa spalancare abissi di
inquietante brutalità. E non dobbiamo tuttavia mai smettere di provarci.
Un padre medico idealista presta servizio come missionario in un campo
africano. In Danimarca ha un matrimonio in crisi e due figli. Il più
grande subisce le angherie dei bulletti della scuola. Un altro padre
soffre la perdita della compagna e non riesce a scavalcare l'alienazione
del proprio dolore per confrontarsi con quello del figlio pieno di
rabbia. I due ragazzini si incontrano e stringono un drammatico legame
che traduce il disagio in una sperimentazione sventata sulla violenza.
Susanne Bier ci accompagna in questo complesso quadro di disfunzioni
familiari tessendo una tela ricca di tensione e ambiguità che però cede
in un paio di momenti (l'inizio e la fine, ma più in generale la parte
africana della pellicola) a qualche scivolone nell'eccesso e
nell'equivocità. Il film è oggettivamente ambizioso, ma riesce a
muoversi con disinvoltura, coraggio e volontà nelle pieghe di
caratterizzazioni articolate e sempre molto dense grazie anche al
sostegno di un cast robustissimo. La regia è elegante e coinvolgente e
conferma il talento della Bier nel navigare con sensibilità tra le
insidie di storie corali difficili che fanno riflettere e sondano zone
profonde e universali.
Non stupisce quindi che la Danimarca abbia scelto “In a better world” per la sua personale corsa agli Oscar. E non sorprenderebbe neanche la sua ammissione nella cinquina finale.
Ludovica Sanfelice