Import/Export

Import Export - Locandina

La storia di Olga, un'infermiera ucraina disoccupata che tenta la fortuna in Occidente, e di Paul, viennese senza lavoro che prende la strada dell'Est.

VALUTAZIONE FILM.IT
TITOLO ORIGINALE
Import/Export
GENERE
NAZIONE
Austria
REGIA
CAST
DURATA
136 min.
USCITA CINEMA
ANNO DI DISTRIBUZIONE
2007
Nella sezione del concorso ufficiale sono stati presentati due lungometraggi che rappresentano curiosamente lo stesso tentativo da parte dei propri autori, e cioè quello di porsi con atteggiamento più empatico, oseremmo dire “caldo”, all'interno sempre di una poetica cinematografica comunque personalissima. Stiamo parlando di Gus Van Sant e del suo “Paranoid Park” (id., 2007), e di Ulrich Seidl che ha portato sulla Croisette il nuovo “Import Export (id., 2007).

Partiamo dall'austriaco: il suo precedente “Canicola” (Hundstage, 2001), in concorso a Venezia, si era presentato come un lavoro a tratti davvero insostenibile, in quanto morbosamente gratuito nel presentare situazioni e personaggi scioccanti, tesi ad indicare allo spettatore l'afasia ed il degrado in cui versa secondo il regista la società austriaca. Un film pesantissimo, che lavorando sullo sfinimento della durata dell'inquadratura arrivava a causare nel pubblico un malcelato rigetto. “Import Export” mantiene senza dubbio gli stessi stilemi narrativi e visivi, continuando quindi a muoversi dentro i parametri precisi del cineasta, ma possiede almeno il pregio di una serie di personaggi con cui si può stabilire un rapporto empatico, e che alla fine del film rappresentano comunque un'alternativa di speranza al degrado sociale e morale in cui sono immersi. Lunghissimo, in certo momenti capace di colpire allo stomaco chi lo sta guardando, “Import Export” sembra però rappresentare un deciso passo avanti nella poetica di Seidl verso un cinema più equilibrato ed accettabile da parte del pubblico medio.

La stessa evoluzione purtroppo non ha invece dato i frutti sperati con Gus Van Sant: “Paranoid Park” rimane un lungometraggio estremamente affascinante, ma il suo essere certamente più emozionale rispetto agli ultimi tre film concede invece qualcosa alla compattezza estetica che li aveva resi dei capolavori nel loro genere. “Rispetto ad esempio al gelido “Elephant” (id., 2004) o al più doloroso “Last Days” (id., 2005), quest'ultima fatica è impostata in maniera meno rigorosa verso il discorso estetico che faceva del piano-sequenza la prima matrice di senso (o non senso, a seconda dei film) dell'opera cinematografica stessa. In “Paranoid Park” Van Sant sembra cedere alle lusinghe del melodramma più semplice, ed accompagna la storia principale con inserti video e musiche tanto coinvolgenti quanto a tratti eterogenee rispetto alla narrazione principale. Il suo film è certamente più “caldo” degli altri, ma dal punto di vista strettamente sperimentale convince in maniera meno profonda. Questa la ricerca che accomuna due autori tra loro lontanissimi a livello geografico e produttivo, ma tutto sommato simili nel modo di intendere il mezzo cinematografico come espressione distanziata ed oggettivamente preziosa del malessere che pervade molti aspetti della vita contemporanea.