Holy Motors
Dall'alba alla notte, alcune ore della vita di Mr. Oscar, un essere che viaggia passando da una vita all'altra. Grande imprenditore, assassino, mendicante, creatura mostruosa, padre di famiglia...Oscar sembra interpretare dei ruoli, immergendosi completamente in ognuno di loro - ma dove sono le cineprese? E' solo, accompagnato unicamente da CÉline, una donna alta e bionda alla guida della gigantesca macchina che lo trasporta attraverso Parigi e i dintorni. Ma dove sono la sua casa, la sua famiglia, il suo riposo?
VALUTAZIONE FILM.IT
TITOLO ORIGINALE
Holy Motors
GENERE
NAZIONE
Francia
REGIA
CAST
USCITA CINEMA
06/06/2013
ANNO DI DISTRIBUZIONE
2012
di Mattia Pasquini
Non sempre è l’approccio razionale quello migliore per avvicinare un film, o per farsi avvicinare da esso. A volte si incorre nel paradosso di una forte razionalizzazione alla base di veri flussi di coscienza che puntano a una condivisione empatica da parte dello spettatore, che ne possa essere coinvolto a un livello più emotivo e evocativo che intellettuale.
Tutto ciò, banalmente, per dire che la visione di questo Holy Motors – quasi Palma d’Oro al Festival di Cannes 2012 (e se non fosse stato per l’Amour pigliatutto di Haneke… – di Leos Carax va affrontata senza pregiudizi, con la massima apertura possibile e con una certa attenzione a non forzare connessioni e cercare significati che potrebbero deludere le vostre aspettative.
Il film stesso lo consiglia, sin dalla prima scena: siate pubblico. Siamo pubblico. Osserviamo in ossequioso silenzio il succedersi di rappresentazioni talmente folli e slegate tra loro che anche l’esiguo filo logico ipotizzato inizialmente si rivela rapidamente illusorio.
Presto, ci si rende conto – ve lo consigliamo – che è così che va accettata la narrazione. E la vita. Il senso ultimo di questo delirio continuato sembra essere questo d’altronde: una messa in scena dell’illusorietà e varietà della realtà, delle nostre e altrui esistenze, del nostro sottometterci a regole spesso innaturali, che pretendono di darci coordinate utili a distinguere il turpe dal consentito, il nobile dall’impensabile, l’immorale dall’edificante.
Denis Lavant è lo splendido Fregoli al servizio del regista francese – ora uomo d’affari, ora priapo nascosto, ora foga beluina, ora attore e mimo – ma più che le tante spalle (o vittime) che si susseguono al suo fianco, è l’onnipresente autista della limousine bianca stile Cosmopolis la figura più emblematica. Tra l’angelo custode e il demone complice, è lei a incarnare il definitivo smascheramento e a spiazzare le pretese di identificazione dei più irriducibili in un finale che, nella sua surrealtà, apre delle possibilità di riflessione sul reale rapporto tra autonomia e dipendenza nel mondo che ci creiamo intorno.
Non sempre è l’approccio razionale quello migliore per avvicinare un film, o per farsi avvicinare da esso. A volte si incorre nel paradosso di una forte razionalizzazione alla base di veri flussi di coscienza che puntano a una condivisione empatica da parte dello spettatore, che ne possa essere coinvolto a un livello più emotivo e evocativo che intellettuale.
Tutto ciò, banalmente, per dire che la visione di questo Holy Motors – quasi Palma d’Oro al Festival di Cannes 2012 (e se non fosse stato per l’Amour pigliatutto di Haneke… – di Leos Carax va affrontata senza pregiudizi, con la massima apertura possibile e con una certa attenzione a non forzare connessioni e cercare significati che potrebbero deludere le vostre aspettative.
Il film stesso lo consiglia, sin dalla prima scena: siate pubblico. Siamo pubblico. Osserviamo in ossequioso silenzio il succedersi di rappresentazioni talmente folli e slegate tra loro che anche l’esiguo filo logico ipotizzato inizialmente si rivela rapidamente illusorio.
Presto, ci si rende conto – ve lo consigliamo – che è così che va accettata la narrazione. E la vita. Il senso ultimo di questo delirio continuato sembra essere questo d’altronde: una messa in scena dell’illusorietà e varietà della realtà, delle nostre e altrui esistenze, del nostro sottometterci a regole spesso innaturali, che pretendono di darci coordinate utili a distinguere il turpe dal consentito, il nobile dall’impensabile, l’immorale dall’edificante.
Denis Lavant è lo splendido Fregoli al servizio del regista francese – ora uomo d’affari, ora priapo nascosto, ora foga beluina, ora attore e mimo – ma più che le tante spalle (o vittime) che si susseguono al suo fianco, è l’onnipresente autista della limousine bianca stile Cosmopolis la figura più emblematica. Tra l’angelo custode e il demone complice, è lei a incarnare il definitivo smascheramento e a spiazzare le pretese di identificazione dei più irriducibili in un finale che, nella sua surrealtà, apre delle possibilità di riflessione sul reale rapporto tra autonomia e dipendenza nel mondo che ci creiamo intorno.