Harry Brown
Un anziano ex-marine decide di vendicare l'assassinio del suo migliore amico facendosi giustizia da solo..
La violenza sul grande schermo, quella vera, brutale, improvvisa,
gratuita e ingiustificata, cruda e destabilizzante, sbattuta lì sulla
faccia dello spettatore sin dalla prima scena. È la violenza come è
nella vita vera, non come quando è coreografata nei film d'azione o in
quelli di cappa e spada. Durante la visione di "Harry Brown" viene più volte istintivo portarsi le mani agli occhi per coprirli, ma come ha detto il regista Daniel Barber che lo ha presentato alla diciannovesima edizione del Noir Film Festival di Courmayeur,
sarebbe meglio non farlo. Nonostante alcune cose siano difficili da
mandar giù, chiudere gli occhi significherebbe distogliere lo sguardo
da una realtà scomoda ma vera, quella di alcuni quartieri
irrecuperabili dove la strada è il set di un western, una guerriglia
continua e silenziosa, un luogo dove la noia si ammazza uccidendo la
gente e commettendo vari altri crimini efferati.
Un Michael Caine persino più bravo del solito è l'ex ufficiale di marina pluridecorato Harry Brown,
un uomo ormai anziano e solo, che ne ha abbastanza di voltarsi
dall'altra parte mentre tutto intorno a lui degenera nel più totale
squallore. Apologia del supereroe, il vecchio "Dirty Harry"
Brown è una sorta di Watchmen che nella realtà potrebbe benissimo
esistere: un uomo che ha le "skills" per fare giustizia e che per
giunta non ha niente da perdere, non gli importerebbe nemmeno di morire
nell'esercizio delle sue funzioni. Ecco quindi che il giocatore di
scacchi con l'enfisema polmonare diventa il giustiziere, la mano
vendicatrice, che fa un favore alla polizia e a tutta la brava gente
del circondario.
Con una fotografia elegante, volti in controluce e montaggio da suspence, "Harry Brown" ha un cast di tutto rispetto, attori uno meglio dell'altro sia nei ruoli dei poliziotti che dei villain, su tutti David Bradley, Argus Gazza in "Harry Potter",
che tiene testa in quanto a talento a Sir Michael. Sangue a fiotti e
cervella che schizzano sui muri, siringhe riutilizzate, sporcizia e
disgusto si sprecano, in un estetismo che attrae infastidendo, che
esalta quanto più suscita moti di schifo. Le citazioni si inanellano
una dopo l'altra, prendendo a piene mani anche da "Doomsday". Ma su tutti c'è lui, Clint Eastwood, palesemente un mito per Daniel Barber che costruisce lo script e le inquadrature copiando da "Gli spietati" e da tutto il cinema del grande Clint, senza tralasciare "Gran Torino".
Il problema è che di Eastwood ce n'è uno solo e, laddove Clint sa
gestire le tematiche scomode che tocca e riesce a far apprezzare
persino le sue venature repubblicane, Barber perde subito il controllo
e realizza un film che sulla carta poteva funzionare, ma una volta
terminato è un vero spreco di risorse. Giustizia sommaria, azioni
politiche degne del peggior estremismo destrorso, sessismo, pietas
ingiustificata e randomica... Harry Brown non è un eroe, ma solo la
scheggia impazzita che riprende in mano le armi infrangendo una
promessa. E non ha nemmeno un briciolo del fascino di Rorschach.
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