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OLIVER STONE: IL FILMAKER
Nato a New York il 15 settembre 1946 da padre americano e madre francese, Oliver Stone è di sicuro un emblema dell'America, con le sue enormi contraddizioni e le sue inaspettate potenzialità. Amato o odiato, Stone non riesce mai indifferente, né al pubblico, né ai critici.
02.12.2000 - Autore: Renato Della Valle
Nato a New York il 15 settembre 1946 da padre americano e madre francese, Oliver Stone è di sicuro un emblema dell’America, con le sue enormi contraddizioni e le sue inaspettate potenzialità, con il suo moralismo bigotto che non permette che un politico abbia (pubblicamente) un’amante e con la sua incredibile libertà garantita da una costituzione nata per un Paese di etnie diverse. Amato o odiato, Stone non riesce mai indifferente, né al pubblico, né ai critici (anche a quelli di oltreaceano). Pluridecorato in Vietnam, dove oltreché soldato fu anche insegnante d’Inglese, tornato in patria si iscrisse alla prestigiosa New York University Film School, dove ebbe maestri del calibro di Martin Scorsese. Molto influenzato dalla Nouvelle Vague francese (in particolare si riferisce A bout de souffle di Godard), il giovane Oliver fonda con alcuni compagni di corso un gruppo radical che teorizzava l’uso politico del cinema, insomma l’utilizzo di uno dei più diffusi strumenti di comunicazione di massa come veicolo che permettesse di “andare oltre”.
E a questo principio Stone non è mai mancato, riuscendo in un mix irripetibile di popolarità-successo e provocazione a ottenere - nel corso della sua carriera multiforme come sceneggiatore, regista e produttore - undici nomination all’Oscar e a vincerne tre (per la sceneggiatura di “Fuga di mezzanotte” di Alan Parker, 1977, per la regia e la sceneggiatura di “Nato il 4 luglio” e “Platoon”). Ha inoltre ricevuto due Director’s Guild of America Award (premio meno famoso, ma forse più prestigioso di quello degli Academy) per “Platoon”, “Nato il 4 luglio”, “Jfk” e uno per la sceneggiatura di “Fuga di mezzanotte”.
Ed è stato proprio l’incontro con l’allora semisconosciuto Alan Parker (regista, tra tanti, anche di due film musicali popolarissimi: “Pink Floyd: the Wall” ed “Evita”, quest’ultimo di nuovo con la scenggiatura di Stone) e l’occasione di sceneggiare un film decisamente coraggioso per il contenuto molto esplicito e le numerose scene di violenza, sia fisica, sia psicologica (era il 1977 e la censura era molto più severa; oltretutto negli Usa se un film viene censurato come “solo per adulti” ha un numero bassissimo di possibilità di essere distribuito).
La brutalità, la violenza esasperata, la lotta dell’individuo di fronte al “sistema” saranno per Oliver Stone una costante del suo lavoro di regista, ma anche di sceneggiatore. Basti pensare all’opposizione tra Al Pacino e le leggi dei signori della droga, in “Scarface”, 1983, di Brian De Palma.
Certamente nei film di Oliver Stone c’è una “visione” della violenza che risulta scomoda all’establishment (cui, in un certo senso, lo stesso Stone appartiene), ma c’è soprattutto un modo di fare cinema “vero”, estremamemente personale, sperimentale, moderno. Difficile sia da realizzare, sia da seguire. Oliver Stone mette in scena dei drammi e lo fa con lo strumento che conosce meglio: il cinema.
Si tratti di drammi di guerra (e non c’è solo il Vietnam di “Platoon” e di “Nato il 4 luglio”, ma anche le squadriglie della morte e l’uccisione di Monsignor Romero -di cui quest’anno ricorre il ventennale- di “Salvador”, 1986); o invece di drammi “collettivi” di una Nazione come “Jfk” o il discusso “Nixon” si tratta sempre di film di grande successo, visionari, estetizzanti che evidenziano quanto per Oliver Stone sia imprescindibile narrare con le immagini.