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Lei non ha mai frequentato i film della memoria, come ha affrontato un film come “Noi credevamo”?
In realtà già con “Morte di un matematico napoletano”, che era ambientato negli anni ’50, ho girato mettendomi in rapporto col presente. Così come “il matematico” si svolgeva in una Napoli non ricostruita, anche “Noi credevamo” ha un forte rapporto con il presente: è sì un film sul passato, ma è un film sull’Italia che noi viviamo e sulle sue radici che si possono leggere in maniera molto chiara. Io non c’ho mai lavorato pensando di fare un oggetto del passato, ma bensì del presente.
La storia descritta in questo film lascia un senso di sofferenza e dolore nello spettatore, che vede come l’Italia unita non sia stata quella desiderata. Era un vostro obiettivo?
Non credo che il rapporto col dolore debba produrre necessariamente tristezza, al contrario esso deve produrre guarigione, catarsi. Mi pare che siamo sofferenti come cittadini anche senza “Noi credevamo”. Vedere il film può dare una qualche ragione di questa sofferenza e darci una spinta nell’andare avanti.
Ha lavorato per molti anni a questo film, cosa direbbe Mazzini se fosse qui oggi?
Mazzini non era assolutamente un terrorista: le parole che pronuncia nel film sono tutte vere, tutte autentiche. Egli rappresenta quella parte d’Italia che non riesce mai a diventare maggioritaria, che rimane in una posizione pura e dura come un cristallo, una posizione sofferta ma che proprio per questo oggi è molto preziosa e credo che ci si possa riconoscere nella forza delle sue azioni.
Perché la scelta di dividere il film in episodi?
Non stiamo raccontando il Risorgimento: non abbiamo la pretesa di raccontare tutto quello che c’è da raccontare. Illuminiamo quattro momenti diversi, come se improvvisamente si accendessero le luci su un paesaggio storico e ci mostrassero delle cose che non ci aspettavamo, delle cose che non sappiamo. In questo film, infatti, vengono raccontate cose che i cittadini italiani non sanno, se non gli storici o pochissimi persone addette ai lavori. Sono tutta una serie di episodi che non si conoscono: l’episodio dell’Aspromonte, dell’alba tragica della nostra nazione, dello scontro fratricida che noi ancora portiamo sulla nostra pelle: l’unica cosa che ci arriva da quel tempo e che è diventata memoria collettiva è solo una canzoncina, “Garibaldi fu ferito…”, ma ignoriamo che gli italiani si siano sparati addosso a quel modo, che l’esercito regolare abbia sparato sui garibaldini e su Garibaldi stesso, mentre Mazzini moriva clandestino, braccato dalla polizia italiana. Quindi i quattro episodi avevano un significato molto preciso. L’ultimo episodio è quello emotivamente più forte, perché i destini individuali si fanno popolo, ma anche in tutti gli altri episodi, nella giovinezza del primo, nel calore della resistenza forte degli uomini nel carcere del secondo; il film è costruito per andare in crescita, è normale quindi che alla fine si sia conquistati emotivamente poiché c’è qualcosa che cammina sin dall’inizio.
Rispetto al titolo del film coniugato all’imperfetto, lei ritiene che nel presente ci si possa domandare “noi crediamo”?
Io credo. Inteso nel senso di passaggio di testimone dalle persone che ci sono state prima di noi, un passaggio di testimone molto importante, poiché in Italia non sempre si è perso: l’Italia comunque è stata fatta, l’idea repubblicana è rimasta viva, una resistenza è stata compiuta e l’Italia è stata liberata, il nostro paese è andato avanti in maniera inimmaginabile negli anni ‘60 e ‘70. Quindi il problema non è quello di disgregare l’Italia in nome di un federalismo fondato sull’egoismo e sull’idea semplificatoria che esista un contrasto dal basso tra nord e sud: l’Italia è separata politicamente tra un animo democratico e uno autoritario. Quindi noi credevamo significa continuare a credere, continuare a dire la verità senza paura, senza nascondere o rimuovere.
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Il regista parla del film, già presentato in Concorso a Venezia '67 e in uscita nei nostri cinema, distribuito da 01 Distribution
10.11.2010 - Autore: La redazione