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Intervista ad Armin Mueller-Stahl: “La mia vita piena e lunga”

Il grande caratterista tedesco premiato alla carriera al Festival di Locarno

La promessa dell'assassino - Armin Mueller-Stahl

08.08.2014 - Autore: Marco Triolo, da Locarno
Ci sono attori capaci di vendere un film solo con il loro nome in cartellone, e poi ci sono i caratteristi, quegli interpreti che girano centinaia di film, sono considerati grandi professionisti, la spina dorsale del cinema, eppure il loro nome non diventa mai un marchio di fabbrica. Li vediamo e rivediamo, li indichiamo dicendo “Ehi, quello è l'attore che ha fatto x,y,z”, ma spesso non sappiamo come si chiamano. E poi c'è Armin Mueller-Stahl. Uno dei pochi attori ad aver interpretato sia ruoli da protagonista che tantissime parti di contorno. Ha lavorato con gente come Cronenberg, Costa Gavras, Fassbinder, Soderbergh. Ha visto più storia lui, con i suoi penetranti occhi blu, di quanta ne abbia vista la maggior parte delle persone ancora in vita. È passato dalla Germania Est all'Ovest, ha visto ergersi il Muro di Berlino, si è trasferito a Hollywood ultracinquantenne e “senza sapere una parola di inglese”, re-inventandosi. In questi giorni è stato ospite d'onore al Festival di Locarno, dove ha ritirato il Pardo alla carriera Parmigiani. Lo abbiamo incontrato e ascoltato raccontare per più di mezz'ora aneddoti tra il divertente e il toccante. Una miniera d'oro che ora condividiamo con voi.
 
Il Festival di Locarno le ha assegnato quest'anno il premio alla carriera. Lei lavora da quasi cinquant'anni e ha visto cambiare molte cose nel mondo e nel cinema. Qual è stato il punto di svolta nella sua vita?
Ne ho avuti così tanti... Ho studiato musica a Berlino Est e sono diventato insegnante di violino a Berlino Ovest. Nel 1961, quando hanno costruito il Muro, mi sono spostato a Berlino Est perché il teatro era migliore, Bertold Brecht si era trasferito lì dall'America. Avrei voluto lavorare con lui ma non mi hanno mai preso nel Berliner Ensemble, forse perché avevo un aspetto troppo occidentale. Poi ci sono stati gli anni del Muro, un periodo cupo, e la crisi di Cuba. Io ero a Cuba nell'ottobre del 1962, stavamo girando Preludio 11, una co-produzione tra Francia, Germania e Russia. Credevamo che fosse finita quando abbiamo visto le navi americane schierate nella baia... I tedeschi volevano andarsene – codardi! – i francesi volevano combattere gli americani e i russi erano sempre ubriachi. Anche io bevevo con loro, perché ci aspettavamo che fosse la fine. Oggi le cose non sono tanto migliorate, la pace è determinata da due bombe atomiche, è assurdo!

Avalon (1990)
 
Come è stato trasferirsi in America a quasi sessant'anni?
Vi racconto una storia. Sono andato a Hollywood perché non mi piaceva più la Germania Ovest. Un famoso produttore mi propose svolte di carriera che non mi piacevano e mi spostai in America. Fu una mossa incosciente, perché avevo quasi sessant'anni e non parlavo una parola di inglese. Tanti attori che arrivano in USA, magari parlando un inglese fluente, finiscono per fare i tassisti. Fui fortunato perché un regista (Barry Levinson, ndr) mi aveva visto in un film europeo e mi propose Avalon, dove io, tedesco che non sapeva l'inglese, facevo un capofamiglia ebreo.
 
Spesso capita che gli attori europei, e soprattutto tedeschi, a Hollywood finiscano associati per sempre al ruolo del cattivo, del nazista. Lei invece ha sempre interpretato ruoli diversi. Come ci è riuscito?
Non ci sono riuscito io, ci sono riusciti loro, mi hanno offerto tanti ruoli diversi. Naturalmente è stato un privilegio, da tedesco ne sono stato contento. Quando ho girato Avalon ho lavorato con un cast di grandi attori ebrei americani, Lou Jacobi per esempio. Ricordo che, quando andavamo sul set, Lou non mi faceva mai entrare per primo. Apriva la porta e passava, lasciandomi sempre indietro. Dopo tre giorni di riprese, in un momento in cui eravamo tutti insieme ho preso la parola e ho detto: “Miei cari colleghi, vi dirò una cosa: avevo quattordici anni quando è finita la guerra”. E poi me ne sono andato. Il giorno dopo l'umore era totalmente cambiato. Dovevamo girare una grossa scena e io ero molto meglio preparato di Lou, che invece non ricordava le battute. Alla fine ha aperto la porta e mi ha detto “Prima tu”. Da quel momento siamo diventati amici.

Lola (1981)
 
Quale tipo di regista preferisce, quelli che danno grande libertà o quelli che danno molte indicazioni?
Io ho bisogno di molta libertà, e un bravo regista te la lascia sempre. Barry Levinson, Ron Howard, Steven Soderbergh – sono tutti registi di questo tipo. Soderbergh l'ho incontrato che era praticamente un ragazzino (sul set di Kafka, ndr) e siamo ancora molto amici. Fassbinder è stato il regista che mi ha lasciato più libertà in assoluto.

Il suo unico film da regista, Conversation with the Beast, la vede anche nel ruolo di un uomo che afferma di essere Hitler, in realtà sopravvissuto alla guerra. Perché ha scelto questo soggetto e cosa significa per un tedesco fare film su Hitler?
L'idea mi è venuta sul set di Music Box, in cui interpreto un criminale di guerra nazista. Quando lavoro a un film tengo una specie di diario, in cui disegno le scene. In quel caso ho cominciato a scrivere su Hitler e su quello che mi sarebbe piaciuto chiedergli se avessi potuto riportarlo in vita. Da lì ho sviluppato l'idea e i dialoghi, ma non pensavo di farne un film fino a che un produttore non me l'ha proposto. Non riuscivo a vedermi nel ruolo di Hitler e così l'ho proposto a un altro attore, che però non ha accettato. Quindi ho iniziato a svilupparlo per me e in breve ho capito che il tono serio che avevo scelto per la storia non funzionava. È stato allora che ho capito Chaplin e tutti gli attori che hanno interpretato Hitler: è un personaggio assurdo, perché è impossibile comprendere che cosa passi per la testa di una persona così. Perciò ho cambiato il tono del film e ho reso il personaggio più divertente, trovando finalmente una chiave di lettura per farlo mio.
 
Lei è un caratterista che ha interpretato sia ruoli principali che di contorno. C'è una differenza nel modo in cui approccia questi due tipi di ruoli?
No, il segreto della recitazione è essere sempre credibile. Faccio un esempio: una volta ero alle Hawaii, dopo che avevo fatto La promessa dell'assassino di David Cronenberg, in cui interpreto un boss della mafia russa. Sulla spiaggia c'era questo oligarca russo che parlava al cellulare, urlando. A un certo punto si gira verso di me e mi vede. Si ferma. E poi ricomincia a parlare, ma a voce bassissima! Ancora oggi, quando la gente mi vede per strada, mi saluta come se fossi il mio personaggio in Avalon...

La promessa dell'assassino (2007)
 
Rivede mai i film che interpreta?
No, di solito li vedo una volta sola. Una volta che ho girato un film o scritto un libro per me è un capitolo chiuso. Alcuni addirittura non li ho mai visti, come In the Presence of Mine Enemies. Ricordo che una volta sono tornato a casa e mio figlio lo stava guardando. Io faccio: “Sembra bello questo film, chi è quell'attore?”. E lui: “Sei tu”. A volte interpreto storie di cui sono proprio felice di liberarmi, per esempio proprio In the Presence of Mine Enemies. Quel film è curioso perché io interpreto il rabbino buono, mentre gli attori inglesi fanno i nazisti. Fu una vera soddisfazione!
 
Spesso i registi la chiamano a interpretare personaggi con un lato oscuro prominente.  Ad esempio in Music Box. Non ha mai paura di questi ruoli?
No. A proposito di Music Box ricordo che mi incontrai con Costa Gavras a Parigi. Entrammo subito in sintonia, ma gli dissi che prima di accettare dovevo leggere la sceneggiatura. Walter Matthau voleva moltissimo il ruolo, aveva anche imparato a fare l'accento ungherese. Poi ho letto lo script e mi ha rapito. Mi sono chiesto a lungo se avrei dovuto farlo, ma infine ho capito che dovevo assolutamente, specialmente perché sono tedesco.
 
All'epoca in cui viveva in Germania Est, era consapevole di ciò che faceva il regime?
È una domanda complessa e richiederebbe una risposta lunga. Ne parlo nelle mie autobiografie. Certamente ne ero al corrente: ho lasciato la Germania Est nel 1979, ma il mio matrimonio era già finito dal '75, quando fu cancellata Das unsichtbare Visier, una serie TV che interpretavo e che era popolarissima. C'erano state già molte cose che non mi erano piaciute, come l'invasione dell'Ungheria nel '56, la costruzione del Muro nel '61, l'invasione della Cecoslovacchia nel '68. Molte cose che hanno contribuito al mio desiderio di lasciarmi alle spalle il Paese e il sistema.

Music Box (1989)
 
Pensa che reciterà mai piu?
Non dico di no, ma per ora non è in programma. Proprio in questo momento ho un bellissimo script sulla mia scrivania, un film americano che parla di due vecchi amici, ma non sento nessun fuoco dentro. C'è un progetto che vorrei fare, da regista, e si intitola Hamlet in America, una storia che ho scritto io. Avrei voluto farlo con Jack Lemmon, uno dei miei attori preferiti. Con lui ho lavorato al remake de La parola ai giurati, era una persona gentile e divertente, un attore con cui era stupendo lavorare.
 
Ha qualche rimpianto?
Sempre, su tutto, su tutta la mia vita. No, scherzo, non ne ho. Ho avuto una vita piena. Una volta Fassbinder mi ha detto: “La vita deve essere piena, non lunga”. Un giorno l'ho incontrato e gli ho risposto: “Sbagli, la vita può essere sia piena che lunga”. Nel mio caso lo è stato.