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Gipi, un alieno a Venezia

Il regista de "L'ultimo terrestre" ci parla di alieni, incontri mistici e della speranza disperata che l'Italia possa finalmente cambiare

Gipi a Venezia 68

09.09.2011 - Autore: Marco Triolo, nostro inviato al Festival di Venezia
“Ho solo pensato che fosse una buona storia da trasporre”: sono disarmanti l’umiltà e la schiettezza di Gian Alfonso Pacinotti, in arte Gipi, fumettista diventato regista con “L’ultimo terrestre” (qui la nostra recensione), presentato in concorso al Festival di Venezia. Lo abbiamo incontrato e si è parlato soprattutto della sua figura di narratore di storie, al di là del mezzo scelto per raccontarle.

Perché hai scelto di adattare il fumetto “Nessuno mi farà del male” di Giacomo Monti, anziché una tua storia?
Perché negli ultimi anni ho lavorato a storie molto autobiografiche, e questo ultimamente non aveva fatto bene al mio spirito. Dunque non volevo darmi in pasto al pubblico dei cinema con un film ispirato alla mia vita. E poi il libro di Monti è bellissimo.

Come mai hai voluto un aspetto così classico per gli alieni del tuo film?
Gli alieni sono banali perché non ho interesse negli alieni e nella fantascienza. Sono andato da degli ufologi, mi hanno mostrato le varie razze di alieni e ho scelto i “grigi”.

Dici che non ti interessano gli alieni, eppure hai già trattato il tema in un cortometraggio e adesso li hai scelti per il tuo esordio al cinema. Perché?
Ti voglio raccontare un aneddoto a proposito del giorno in cui mi sono accorto che ero diventato vecchio: ero in aereo, e all’improvviso ho visto un globo di luce vicino al finestrino. Senza entusiasmo ho pensato, “Ah, è un UFO”. Da ragazzino avevo la fissa per gli alieni, sono cresciuto con “Incontri ravvicinati del terzo tipo”. Ma poi ho perso la passione.

Il corto a cui avevo lavorato si intitolava “Vaffanculo del terzo tipo” e raccontava di come alcuni alieni, che atterravano nella campagna pisana, venivano rispediti a casa a sassate dagli abitanti che dicevano cose come “Dovevate arrivare negli anni Sessanta!”. Io ho il vizio di inserire sempre un germe di fantasia nelle mie storie, a volte non piace neanche a me, ma mi capita spesso di usare elementi fuori dalla realtà per raccontare la realtà.

Il tuo film disegna un ritratto terribile del nostro paese. Sei convinto che l’Italia abbia bisogno di un cambiamento?
Certo, la mutazione è auspicabile. Il finale del film, aperto, da un lato è pessimista, perché se aspetti una risoluzione dal cielo vuol dire che stai messo male. Dall’altro è ottimista, perché almeno aspetti una risoluzione.

Dunque c’è la speranza che arrivi qualcuno a salvarci…
Quello degli alieni è un avvento mistico, loro sono creature in grado di distinguere tra bene e male, una qualità che noi abbiamo perso. C’è tanto dell’Italia di oggi: ad esempio, nell’insensibilità degli italiani alla notizia dell’arrivo dei marziani ci vedo le nostre reazioni quando scopriamo al telegiornale che sono morti ottanta immigrati su un barcone. Il giorno dopo l’abbiamo già scordato, e mi ci metto anch’io. Per questo non mi piace giudicare, perché anch’io sono come gli altri. Certo, è disperata la speranza che il cambiamento venga affidato a un intervento esterno.

Nel tuo film c’è tutto il campionario della cattiveria umana…
Mi diverto a scrivere i personaggi cattivi più di quelli buoni, perché da ragazzino mi è capitato un brutto episodio che mi ha segnato con un imprinting di malvagità. Non ne voglio parlare, è personale, ma se vi interessa lo descrivo ne “La mia vita disegnata male” [ed. Coconino Press]. Mi rendo conto di aver ideato dei personaggi molto brutti, delle macchiette che hanno solo il lato negativo. Truffaut diceva di trattare bene anche i cattivi, ma nella classe politica italiana di macchiette così ne ho viste talmente tante che ho pensato, “Truffaut non ha visto l’Italia del 2011”.

Il personaggio di Luca è molto passivo e a volte non agisce come dovrebbe. Però sembra che tu non voglia giudicarlo. Come mai?
Avere personaggi passivi è un mio vizio. Di solito, i protagonisti delle mie storie sono solo un paio di occhi che assistono alle vicende. L’unica differenza tra Luca e gli altri è che lui percepisce le cose, anziché lasciarle scivolare via. Sente compassione e partecipazione nelle vite altrui. Non lo giudico perché, anche se è un inetto, ha delle attenuanti. Dopotutto è un bambino.

Parlaci delle location: nel film non emerge un’ambientazione urbana definita. Perché questa scelta?
Le location le ho scelte su base affettiva e di conoscenza. Il grande magazzino che si vede nel film esiste davvero, è lì che ho cercato il mio divano – anche se alla fine l’ho comprato all’Ikea! Non abbiamo costruito nulla in studio, il bingo dove lavora Luca è a cinquecento metri da casa mia. Per quanto riguarda l’ambientazione, non volevo un riferimento geografico preciso, anche nelle mie storie a fumetti preferisco che sia così. In questo modo, tutti possono pensare che la storia si svolga nella loro città.

L’ultimo terrestre” sarà distribuito da Fandango a partire dal 9 settembre.

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