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Arriva Gabrielle: i diversamente abili ci insegneranno ad amare

La canadese Louise Archambault racconta amore e attrazione nel mondo dei disabili: “ho fatto un film dalla mentalità aperta”

Gabrielle

13.06.2014 - Autore: Pierpaolo Festa
Con il cuore in mano. Così si gira in Canada, avventurandosi con la macchina da presa dentro le piene emozioni. Lì i registi si muovono sul filo del rasoio che divide delicatezza e prevedibilità. Lo fanno senza paura, portando a casa grandi film come Stories We Tell (di Sarah Polley), toccanti lavori come Mommy (di Xavier Dolan, qui la recensione) e interessanti esperimenti sull'intimità come Gabrielle – Un amore fuori dal coro, il film di Louise Archambault appena approdato nei nostri cinema. “Di certo noi canadesi non ci paragoniamo a Hollywood – afferma la Archambault ai microfoni di Film.it – Giriamo film a basso budget, recitati in francese. Non abbiamo alcuni schemi di target di audience, cerchiamo solo un pubblico vero che sia disposto a seguirci verso emozioni delicate, raccontate talvolta in maniera insolita. O forse, semplicemente, stiamo vivendo un periodo molto fortunato!”.

Gabrielle è il film con il quale il Canada ha puntato agli Oscar: nonostante la Academy non lo abbia nominato, è comunque riuscito a fare un giro importante ai festival internazionali (Toronto e Locarno), conquistando anche i Canadian Screen Award (gli Oscar in patria) come miglior film e migliore attrice (Gabrielle Marion-Rivard, affetta come il suo personaggio dalla sindrome di Williams). “Volevo raccontare una storia sulle persone invisibili e su come riescano a essere felici”, dice la Archambault a proposito del suo film, incentrato su una ragazza diversamente abile che si innamora di un compagno del suo coro musicale affrontando pregiudizi e i suoi stessi limiti.



Il film è un'esplorazione del modo in cui i diversamente abili vivono l'amore. Oltre al romanticismo, ci sono nuove emozioni che il pubblico può vivere guardando il suo film?
Io stessa ho scoperto che questi miei protagonisti sono persone determinate che sanno godersi il presente e possono sperimentare con esso. Sul set erano veramente allegri e di colpo riuscivano a tirare fuori la tristezza e frustrazione richieste dal ruolo. Erano sempre pronti a rimettersi in gioco. Direi che da loro ho imparato a godermi il momento e trarne il meglio. Mi hanno insegnato che aprirsi agli altri è una emozione in grado di riempire l'animo.

Il suo approccio al materiale narrativo è molto delicato. Allo stesso tempo, quanto “essere delicati” può diventare un problema restrittivo quando si raccontano questi personaggi?
Ho provato a rimanere molto vicina alla realtà dandomi un limite: non volevo sconfinare in situazioni sdolcinate o troppo deprimenti. L'intento era quello di spremere questi temi delicati per fare uscire speranza e amore, al fine di ottenere l'identificazione totale con il pubblico. I veri problemi sono stati il poco tempo a disposizione e il nervosismo della madre della mia protagonista prima di girare alcune scene.

Immagino che lavorare con attori non professionisti e con una protagonista affetta dalla stessa sindrome del suo personaggio implichi un piano di lavorazione mai solido e pronto a essere cambiato su basi quotidiane. È andata così?
Sì, non abbiamo potuto organizzare tutto in maniera automatica. Più volte ho dovuto ricorrere ad alternative e nuove soluzioni. È successo ogni singolo giorno sul set. Vuoi sapere una cosa però? Ero a totalmente a mio agio. Più andavo avanti più mi sentivo supportata dall'energia dei miei attori e dei personaggi incredibili e autentici a cui hanno dato vita. Ecco, mi hanno regalato loro la forza di andare avanti.



Tornando al discorso della madre della protagonista preoccupata sul set: quanto ha dovuto pressare emotivamente Gabrielle Marion-Rivard?
Dovevo spingerla fino ai suoi limiti: lei non è un'attrice, non sa controllare le sue espressioni,  quindi non ragiona in maniera cinematografica. Eppure voleva essere eccellente, ce l'ha messa tutta. La cosa più difficile per lei (come per gli altri non professionisti) era non guadare direttamente verso la macchina da presa: aveva difficoltà a coordinarsi nei movimenti e nello spazio. Io mi aspettavo questo genere di problemi, dunque non ho mai smesso di aiutarla. Sul set Gabrielle aveva qualcuno con cui provare costantemente le sue battute prima del ciak. Io, invece, mi sono permessa di cambiare quegli stessi dialoghi: a volte chiamavo a parte un altro attore e gli dicevo di cambiare una battuta o di ignorarla del tutto. Questo metodo implica prontezza ed elasticità: d'un tratto l'attore non pensa più né alla macchina da presa né agli automatismi dei dialoghi. Finalmente è nel suo personaggio.

Possiamo definire Gabrielle un “feel good movie”: ripensando al suo obiettivo di non strafare con le emozioni, quanto zucchero e miele ha dovuto togliere mentre lo montava?
Oh, è stata dura fino alla fine. Discutevo con il mio produttore che cercava di mettermi in guardia per non perdere il coinvolgimento del pubblico. Mi piace pensare che sia un film dalla mentalità aperta: esploriamo una vera problematica sociale e allo stesso tempo raccontiamo gioie e difficoltà di una ragazza nel suo processo che la trasforma in una vera donna.

Louise, tornando alle emozioni dei filmmaker canadesi con cui abbiamo aperto la nostra intervista, ecco la domanda che chiediamo sempre alla fine: qual era il poster che aveva in camera da ragazzina?
Bella domanda: avevo tredici anni quando ho attaccato i poster di David Bowie, uno dei Police e uno di Billy Idol. Sì, ero pazza per il loro “biondo” oltre che per la loro musica.

Gabrielle – Un amore fuori dal coro è distribuito da Officine UBU.

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