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Noi credevamo - La nostra recensione

Martone firma un affresco coraggioso, ma non indimenticabile, del Risorgimento

Noi credevamo

07.09.2010 - Autore: Andrea D'Addio
Il Risorgimento, la storia d’Italia dal 1828 al ‘72, attraverso le vicende di tre personaggi, prima ragazzi, poi uomini ed infine, ma non tutti, anche vecchi, che vivono l’aspirazione di vedere il proprio Paese unito e repubblicano. Il tentativo di Mario Martone, regista e co-sceneggiatore assieme al Giancarlo De Cataldo di “Romanzo Criminale”, è senza dubbio ambizioso.

Mai il cinema italiano aveva cercato la via della saga nel tempo per raccontare la nostra indipendenza, mai lo aveva fatto con una durata filmica così lunga: tre ore e ventiquattro minuti. Ed in verità non lo fa neanche adesso, non almeno a volere essere pignoli. Noi credevamo” è infatti un buon, in certi punti ottimo, sceneggiato televisivo. Non cinema. E per cinema intendiamo la capacità e la voglia di dire tutto il necessario cercando di evitare la ridondanza e la staticità dei dialoghi, cercando nelle immagini, forme  che da sole svolgano una funzione comunicativa, senza essere didascalici, avendo un senso del ritmo che sappia essere un flusso non sfilacciato di situazioni, ma coeso (o almeno quasi), con un’idea di rappresentazione che non sia solo quella di lavorare scena per scena per arrivare alla fine del racconto.

Purtroppo, in "Noi credevamo", a volere peggiorare le cose, per un italiano (forse per uno straniero sarebbe diverso) è ancora più facile parlare di “prodotto televisivo”, visto come la fotografia e l’utilizzo delle musiche, anche in questo caso, ricordino le varie storie in più puntate di Rai e Mediaset. Il film di Martone non è neanche un “La meglio gioventù” un secolo prima, non c’è la stessa cura né per la regia, né per la sceneggiatura. I personaggi rimangono rinchiusi nei loro stereotipi, costretti a dire a parole ciò che provano e a non fare mai nulla che vada al di là della missione narrativa assegnatagli: quella di essere non uomini a tutto tondo, ma uomini della Storia (seppur di fantasia, almeno per i protagonisti) che hanno il dovere di rappresentare.

Il cast non spicca per meriti, limitato prima di tutto dalla sceneggiatura ancor prima dalle capacità recitative degli interpreti (anche perché Servillo, la Inaudi e Riondino non sono gli ultimi arrivati così come LoCascio che però si sta un po'chiudendo in certi ruoli idealistici). Messi in chiaro i difetti, passiamo ai pregi. Che non mancano, visto che Martone riesce, seppur dopo solo due ore, a dare fluidità al proprio racconto, tirando le fila di vari lacci della nostra storia passata senza banalizzazioni e retorica. Merito da condividere sicuramente con l'omonimo libro di Anna Banti (pubblicato nel ’67) a cui è liberamente ispirato (e che riprende soprattutto nel finale), ma anche della capacità del regista di dare un immaginario visivo al tutto.

Il contrasto tra le varie strategie per l’Unità, l’idealismo spinto all’estremo, la frattura di fondo, mai sanata, tra popolo e intellettuali, il ruolo ambiguo dei Savoia e di Torino, quello spontaneo di Garibaldi e fanatico di Mazzini: c’è tanta carne al fuoco, e probabilmente, per le scolaresche la visione sarà d’obbligo nei prossimi anni. Nonostante questo, non si capisce la necessità di mettere in concorso ufficiale a Venezia un film così potenzialmente interessante per noi italiani, quanto avaro di “cinema” per gli stranieri e la giuria.