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Black Venus - La nostra recensione

L'ipocrisia e lo sfruttamento di un occidente ancora non maturo per il diverso

Black venus

09.09.2010 - Autore: Andrea D'Addio
Nel 1817, l’anatomista Georges Cuvier espose il cervello, la vagina e l’intero calco del corpo di una ottentotta (popolazione tra le più antiche ad aver popolato l’Africa australe ) da poco deceduta, presso l’Accademia Reale di Medicina di Parigi. Lo scopo era scientifico, l’organo riproduttivo della donna, con le labbra interne molto sviluppate, era motivo di alta curiosità per i naturalisti dell’epoca, ma la violazione che fecero dell’integrità, seppur solo del cadavere, di Saartjie Barman fu analogo ad uno stupro. Per due secoli quel materiale è stato esposto al Museo dell'Uomo di Parigi, prima che il Sud Africa lo reclamasse e, nel 2003, al momento della consegna, lo accolse festante come simbolo dell’integrità della donna e, in misura minore, ennesimo passo di una rielaborazione critica dello sfruttamento coloniale europeo degli africani.
Kechiche ci racconta l’avventura europea della povera Saartje, partita per sua scelta assieme al suo ex datore di lavoro (gli faceva da domestica) dal Sud Africa per l’Inghilterra, per essere mostrata come fenomeno da baraccone prima ed, in seguito, con un altro amico-protettore, come prostituta nei bordelli francesi, dopo essersi negata, da viva, ad un’approfondita analisi scientifica. Kechiche lo racconta attaccando la macchina da presa al corpo della sua voluminosa, splendidamente statuaria protagonista, personaggio di fango nelle mani di padri e padroni desiderosi di bagnarlo sempre più per renderlo sostanza malleabile da stringere nelle proprie mani secondo i propri voleri e ritorni economici. Una spugna che si assottiglia e che trova solo nell’allontanamento mentale, nell’alcool, la propria via di fuga, in attesa di diventare semplicemente acqua e lasciare  agli occhi del mondo tutto il resto, un contenitore senza più anima, da pizzicare, penetrare e studiare a seconda del caso. Razzismo, ipocrisia, indipendenza femminile: con Black Venus i temi sono molteplici e tutti scandagliati da punti di vista mai presuntuosi, ma all’altezza degli stessi personaggi.


E’ indubbio che Kechiche si autocompiaccia del suo stile, della sua capacità di stare in mezzo alla gente toccando la sensibilità degli animi anche dei personaggi più negativi, e per questo allunga a dismisura scene che appaiono infinite per durata, giocando davvero con la pazienza dello spettatore. Ma il difetto si bilancia con la rara capacità del regista franco-tunisino di riuscire a raccontare qualsiasi storia, quella di Black Venus in particolare, senza dare giudizi sommari sui suoi personaggi. Non semplifica mai in buoni e cattivi (qui, anche i più disgustosi, hanno normalmente una loro coerenza e comprensibilità),  ma lascia che sia lo spettatore ha analizzarne l’animo e a darsi le possibili risposte. L’esito è un film di cui si conosce fin dall’inizio la conclusione, ma che riesce comunque a mantenere alta la tensione per tutti i suoiu centosessanta minuti, proprio grazie a questo suo continuo muoversi al di là delle generalizzazione di significati e significanti. Un film a suo modo splendido, ennesimo tassello di una filmografia (Tutta colpa di Voltaire, La schivata, Cous Cous) che si sta delineando come una delle più importanti del nuovo, vecchio continente. Il film è stato presentato in concorso al festival di Venezia: sarà quantomeno Coppa Volpi per la sua splendida protagonista?

 

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