"Il cinema di genere è vivo e lotta insieme a noi". Marco Müller insospettabile fan di Lenzi, Deodato, Castellari e tutto il carrozzone del genere italiano anni Settanta? Viene fuori anche questo durante la conferenza tenuta al MAXXI da Eli Roth e tutti i succitati registi, meno il grande assente Deodato e più Sergio Martino, Claudio Fragasso, Franco Nero, Barbara Bouchet... Sicuramente ci dimentichiamo qualcuno, ma c'erano davvero tanti ospiti e tanto è stato detto, e visto, in due ore e mezza.
La mattina è iniziata con la proiezione de I tarantiniani, documentario diretto da Steve Della Casa e Maurizio Tedesco e prodotto con la collaborazione di Manlio Gomarasca, caporedattore della storia rivista Nocturno Cinema, presente in sala come moderatore. "Il titolo è un attacco all'ipocrisia del nostro Paese. Abbiamo sempre bisogno che venga qualcuno dall'estero a dirci quanto siamo bravi. La stampa ha sempre massacrato queste persone che incassavano un sacco, e adesso quella stessa stampa li rivaluta perché lo ha detto Tarantino". Il documentario ripercorre con ironia tre decenni di cinema italiano, dai western ai polizieschi, dall'horror all'erotismo e infine al cannibal movie. Molti sono gli ospiti interpellati: a parte i registi citati, ci sono filmati di repertorio di Sergio Leone e Fernando Di Leo.
L'incontro ha tentato un'analisi della situazione del genere in Italia e del perché oggi sia praticamente impossibile farsi finanziare opere di questo tipo. "In Italia non è semplice trovare risorse per fare film di genere - interviene Cosimo Alemà, regista de La santa, presentato al Festival - Io ne ho fatti due, una volta con una co-produzione con l'estero, un'altra con un team di produttori giovani. Una cosa che ghettizza il cinema di genere è insistere nel chiamarlo così. Bisognerebbe andare oltre questa definizione, i filmmaker di oggi devono saper reinventare i generi creando qualcosa di nuovo".
Anche Franco Nero ha da dire qualcosa al riguardo: "Da vent'anni non lavoro in Italia, ma in giro per il mondo. Due anni fa ho lavorato a un episodio di Law & Order: Special Victims Unit e ho conosciuto il produttore Ted Kotcheff, il regista di Rambo. Ho scoperto che ha una grande passione per il vino, e così gli ho proposto l'idea per un giallo-horror ambientato nel mondo dei viticoltori. Lui si è appassionato al progetto e voleva girarlo in parte in Italia, così siamo andati in giro a cercare finanziamenti. De Laurentiis ci ha chiuso la porta in faccia, mentre alla Warner ci hanno detto che la sceneggiatura era bella, ma che avevano l'ordine tassativo di produrre solo commedie stupide. Lo faremo, ma a Vancouver".
L'incontro esce un po' da questo clima cupo quando prende la parola Eli Roth, visibilmente esaltato dal trovarsi di fronte a tanti dei suoi idoli. Roth mette sull'iPod le musiche dei suoi film preferiti e tenta di far passare il suo punto di vista di americano: "Ve lo dico io il motivo per cui questi maestri non sono mai stati riconosciuti: i loro film sono arrivati in America nell'85-'86, con l'esplosione delle VHS, e noi li abbiamo scoperti solo allora. Ma sia i titoli che i nomi degli autori erano cambiati con nomi americani, venivano venduti come americani. Quella che è nata come una strategia di marketing ha avuto l'effetto di farli conoscere al pubblico americano, ma allo stesso tempo i loro nomi si sono persi, assimilati nel marasma dei registi americani". Non solo: "Ciò che rende un regista famoso è quella cosa specifica che sa fare, come ad esempio Woody Allen. Secondo me invece un maestro è tale quando sa adattarsi e mettere il genere davanti a se stesso".
"Per fortuna - aggiunge Roth - che oggi non bisogna più fingere di essere di un altro Paese quando si fa un film. Ciò che rende speciali questi film è proprio l'identità, lo stile, la violenza italiana". E conclude: "I loro film sono molto più interessanti di tutto quello che si sta facendo in America adesso. A parte ovviamente Quentin".
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15.11.2013 - Autore: Marco Triolo