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Il regista di Lo chiamavano Jeeg Robot: “Il mio supereroe tra commedia e denuncia”

Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con l'autore di uno dei più sorprendenti film italiani degli ultimi anni, storia di un supereroe di borgata che mescola intrattenimento e riflessione

Lo chiamavano Jeeg Robot

25.02.2016 - Autore: Marco Triolo (Nexta)
Un film di genere, anzi un mix di generi diversi, capace di “intrattenere ed emozionare nel profondo”, senza però ricercare una morale, “perché il cinema non dovrebbe fare la morale o tentare di educare”. Un'attitudine fresca e sincera che, oggi, nel cinema italiano, dove se manca la denuncia sociale si tende ad aggrottare il sopracciglio, è rarissima.

È l'attitudine di Gabriele Mainetti, che con il suo esordio al lungometraggio Lo chiamavano Jeeg Robot riesce a fondere divertimento e critica sociale, supereroi e periferia violenta alla Romanzo criminale, ottenendo un film in perfetto equilibrio tra svago e riflessione mai banale. Con in più un cast di attori (Claudio Santamaria, Luca Marinelli) e non attori (Ilenia Pastorelli) straordinario e diretto con l'abilità dei registi internazionali più consumati. Di questo e molto altro abbiamo parlato con Mainetti nella nostra intervista esclusiva.


LA RECENSIONE DI LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT

Innanzitutto una domanda obbligatoria: come hai fatto a realizzare un film così in Italia oggi?
Beh ho dovuto produrmelo da solo, perché nessuno aveva intenzione di accompagnarmi in questa avventura e non ho trovato un produttore che mi proteggesse. Ho capito che dovevo muovermi io e produrmelo come i cortometraggi che avevo fatto. E così il film è uscito come lo volevo io, senza quelle costrizioni che può avere un regista lavorando con un produttore che ti dice cosa fare e cosa non fare.

Nel film c'è una sottotrama legata ad alcuni attacchi dinamitardi a Roma, che non trova davvero spiegazione ma serve più che altro a creare un clima di tensione, a dipingere un futuro non tanto lontano ma plausibile...
Proprio così, si crea un'ansia sotterranea, perché è una cosa che pensi possa succedere. Abbiamo cercato di essere sensibili al contemporaneo: quando fai cinema di genere senza parlare del contemporaneo, rischi di fare un film per soli appassionati di quel genere, quindi un'operazione un po' inutile dal punto di vista commerciale. Il genere nasce nella testa di un autore ispirato da quello che ha intorno a sé. Registi come John Carpenter, Wes Craven o il maestro più grande di tutti, George Romero, hanno usato il genere come mezzo per interpretare il sociale. Romero è un marxista che usa il morto vivente come specchio deformante di una società malata: così va usato il genere, e non significa fare un genere d'autore, perché quella è la cosa peggiore. Significa fare un bel film, punto.

Uno dei pregi del film è il perfetto equilibrio fra tono drammatico e senso del ridicolo...
Sì, c'è un equilibrio continuo tra lo sguardo nel profondo e la battuta che ti fa sorridere. Credo sia nella natura dell'italiano, e la commedia dell'arte insegna che se vuoi evitare il melodramma devi rendere tutto leggero. Anche la vita è così, non è tutta triste e scura.


QUIZ: QUALE ROBOTTONE GIAPPONESE SEI?

Hai fatto anche un ottimo lavoro con gli attori. Luca Marinelli è straordinario, mentre Ilenia Pastorelli è una vera rivelazione, perché non ha un background da attrice. Qual è il tuo segreto?
Fare tante prove e tanta improvvisazione. Nelle prove chiedo all'attore di esplorare il personaggio il più possibile, in modo che poi abbia una discreta sicurezza nell'improvvisare sul set. E, da attore, mi preme molto che gli attori si trasformino nei loro personaggi. Forse quello che si è trasformato più di tutti è stato Claudio Santamaria, sia fisicamente che nell'impostazione della voce. Ilenia è stata sorprendente: l'ho incontrata come incontri il tuo attore pasoliniano, cioè vero per quello che è, ma poi ha recitato davvero, è stata in grado di accedere a una emotività profonda.

Che poi è la chiave di tutto il film...
Sì, è fondamentale, perché è in quel dolore profondo che Enzo si riconosce. Da lì nasce un incontro, un amore reciproco che va al di là dell'amore di coppia: è l'amore tra due persone disperate che si trovano e iniziano a volersi bene, e questo permette al protagonista di aprirsi molto all'altro e quindi agli altri. Il motivo per cui Enzo non riesce mai a super-delinquere alla grande è perché è una brava persona, e lei glielo fa capire, come un grillo parlante che gli ricorda chi sia veramente. In quei contesti disagiati è un attimo finire male; io e gli sceneggiatori, Nicola Guaglianone e Menotti, conosciamo bene quella realtà e sappiamo che c'è una speranza di cambiamento. A prescindere dalla nerdata di fare un film di supereroi, a me diverte l'idea di poterti intrattenere e non tanto farti pensare – perché credo che il cinema non dovrebbe fare la morale o tentare di educare – quanto emozionarti nel profondo. Non bisogna mai giudicare, come insegna Claudio Caligari. Tutti dovrebbero vedersi i suoi film prima di fare quel cinema autoriale da periferia che a me non piace per nulla.

Lo zingaro, il personaggio di Marinelli, è stato paragonato da più parti al Joker. Sei d'accordo?
Sì, volevamo trovare il nostro Joker ma farlo funzionare in una realtà tutta nostra, con un delirio mentale comprensibile. Lo zingaro è vittima di quel narcisismo contemporaneo che ci spinge a farci selfie ovunque e aspettare i like e le visualizzazioni dei video che abbiamo postato su YouTube. Lui ci ha provato a intraprendere la carriera da interprete a Buona Domenica: il talento non gli manca, sa cantare, è simpatico e spigliato, ma non gli è andata bene e questa necessità narcisistica se la porta appresso nella realtà criminale. È geloso del successo involontario di Enzo, e finisce per scivolare in un delirio estetico che cita esplicitamente David Bowie e Ziggy Stardust, quando si mette la parrucca rossa. Il joker è certamente più folle: sono curioso di vedere come uscirà Suicide Squad, ma se leggi i fumetti DC il Joker è uno che distrugge l'ordine perché non ce l'ha lui in testa, e noi abbiamo esaltato questo elemento.


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Un paio di domande tecniche. Come mai avete ridoppiato gli spezzoni di Jeeg Robot usati nel film?
Abbiamo contattato la Toei Animation, che ci ha dato la possibilità di usare un solo minuto di una puntata. Avevamo solamente i diritti d'immagine, perché i diritti audio li ha chi ha fatto il doppiaggio, e quindi siamo stati costretti a ridoppiare e rifare anche le musiche. Avevamo i diritti della sigla, ma non il master, perciò anche quella è stata risuonata e ricantata da Santamaria, che imita il cantante originale.

C'è anche un grande lavoro sul sonoro, importante perché avevate un budget limitato per gli effetti visivi...
Col sonoro puoi permetterti molto di più, perché l'effetto visivo ha un costo infinitamente maggiore. Abbiamo lavorato con lo Studio 16, un collettivo di sound designer con grande esperienza, cercando di creare un impatto sonoro importante e di conferire una sonorizzazione iper-realista, soprattutto quando Enzo e lo Zingaro usano i poteri.

In questi giorni è uscito al cinema il film di Lupin III, ma tu hai realizzato probabilmente la migliore versione live action del personaggio con il tuo corto Basette. Dove tra l'altro c'è Marco Giallini nella parte di Jigen, forse il casting più azzeccato di sempre...
Grazie. Se chiedi a Giallini quale sia il suo personaggio preferito nella storia del cinema, ti risponderà James Coburn ne I magnifici sette. E siccome Monkey Punch, nel creare Jigen, si ispirò proprio a Coburn in quel film, penso che meglio di lui non lo potesse interpretare nessuno. Certo, io ho declinato la storia in una versione nostra, tutta romana. Ma penso anche che il western di Leone sia un western trasteverino, perché solo un trasteverino risponderebbe alla domanda “Come è stata la tua infanzia?” dicendo “Corta”. Lo sento molto vicino.