Festival Roma 2014
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Intervista: Gino Bartali e l’armata degli Schindler italiani

Il regista Oren Jacoby presenta al Festival di Roma My Italian Secret, documentario sugli eroi silenziosi che aiutarono gli ebrei a sfuggire dalla persecuzione

Bartali

16.10.2014 - Autore: Marco Triolo
“L’armata degli Schindler italiani”. Così era intitolato l’articolo di Dorothy Rabinowitz pubblicato nel 1993 dal Wall Street Journal che il regista Oren Jacoby lesse, decidendo di realizzare un film sugli eroi italiani che, durante la Seconda Guerra Mondiale, aiutarono gli ebrei a sopravvivere alle leggi razziali emanate da Mussolini e alla seguente invasione nazista. Eroi come Gino Bartali, che trasportava false carte di identità nel telaio della sua bici. Ma non solo, perché oltre al campione di ciclismo c’erano tantissimi cittadini comuni che hanno fatto la loro parte durante quegli anni tragici, nascondendo intere famiglie o aiutandole nella fuga. “Mio padre diceva che il bene si fa ma non si dice, perché trarre vantaggio dalle disgrazie altrui è vigliaccheria – ci spiega Andrea Bartali, a Roma per presentare il documentario My Italian Secret: The Forgotten Heroes – Ma aveva questo peso e doveva raccontarlo a qualcuno. Un giorno mi prese da parte e iniziò a raccontarmi pian piano tutta la sua storia, facendomi promettere di non dirla a nessuno. Gli chiesi: ‘Perché me la racconti allora?’. E lui mi rispose: ‘Quando arriverà il momento te ne accorgerai’”.
 
Bartali ha poi scritto un libro sulla storia di suo padre e Jacoby lo ha letto e scelto di includere anche questa straordinaria testimonianza nel suo film. Abbiamo incontrato il regista al Festival di Roma: ecco la nostra intervista.

 
Come ha scelto le persone che sono nel suo documentario e come le ha avvicinate?
Cercavo gente con esperienze di prima mano e piuttosto che concentrarmi sulle vittime volevo parlare delle persone che avevano agito con coraggio e fatto la cosa giusta, che tra salvare la pelle e agire hanno scelto la seconda. Mi chiedevo anche cosa avrei fatto al posto loro se le persone che amo avessero rischiato la morte perché avevo aiutato un estraneo. Ho conosciuto Charlotte e Ursula, due delle donne che si vedono nel film, tramite la fondazione Italy and The Holocaust di New York. Con loro sono partito per l’Italia per rivisitare i luoghi della loro infanzia, in Calabria, a Secchiano nelle Marche e a Città di Castello in Umbria. Ovunque andassimo incontravamo altre persone e imparavamo di più. Il nostro viaggio è stato come una palla di neve che avanzando cresce sempre di più.
 
Per loro è stato difficile ricordare quegli eventi tragici davanti alla telecamera?
Non è stato difficile ricordare, perché i ricordi di infanzia vivono in un posto molto speciale nel nostro cuore e restano vividi nella memoria. La difficoltà è stata superare il trauma, ma una volta iniziato a raccontare non volevano più smettere. Ad esempio Piero Terracina, un uomo che ad Auschwitz ha perso tutta la famiglia. All’epoca erano stati nascosti da un portiere, ma poi furono scoperti e deportati. Ho sentito di dover includere la sua vicenda per dimostrare come non tutte storie erano a lieto fine.

Andrea Bartali.
 
Tutti ricordano gli atti eroici di Gino Bartali ma dimenticano che come lui ci sono state tante altre persone comuni che hanno aiutato gli ebrei italiani. Perché pensa che questa cosa sia successa proprio qui?
Ci sono diverse ragioni. La prima è forse che c’erano meno ebrei in Italia, rispetto a paesi come la Germania e la Polonia dove gli ebrei erano gente di successo, una forza dominante nella società, e dunque c’era un risentimento diffuso amplificato dallo stato e dalla Chiesa. In italia, sin dal Risorgimento, gli ebrei si sono integrati nella società e c’erano anche molti ebrei nel movimento fascista. In secondo luogo, è nella natura italiana non voler fare sempre quello che dice il governo. Mussolini con leggi razziali e Hitler con la sua violenza hanno convinto le persone a non voler collaborare con loro in atti così disumani e innaturali, e le hanno portare alla resistenza. E infine, siccome Italia e Germania erano alleate, i nazisti hanno invaso solo nel 1943 e non c’è stato abbastanza tempo affinché la macchina di morte nazista entrasse pienamente in funzione. 
 
Questo film è molto importante perché riporta le testimonianze degli ultimi sopravvissuti alla guerra. Pensa che il cinema – sia quello di finzione che i documentari – possa mantenere viva la memoria per le nuove generazioni?
Credo che questo sia il ruolo fondamentale del cinema. Quello di finzione non sempre è “storicamente accurato”, ma rappresenta una sorta di eredità emotiva dei nostri tempi. In particolare, credo che il documentario sia una delle grandi invenzioni del secolo scorso e che sia importantissimo per come aiuta la gente a comprendere gli eventi storici, in modo da poter imparare da essi.
 
Settantuno anni fa esatti avveniva il rastrellamento del ghetto di Roma. Come si sente a presentare il suo film proprio oggi?
È molto importante per me, perché è una storia che ho scoperto per la prima volta a 19 anni, mentre studiavo cinema qui a Roma. È commovente per uno che ama l’Italia come me essere accolto con tanto calore. Ho anche ricevuto una bella lettera dal Presidente della Repubblica. È per cose come queste che fai questo lavoro.
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