
Rabin, the Last Day prende una strada che sempre più spesso viene scelta dai registi di oggi, quella di fondere fiction e documentario nel ricostruire un evento di grande impatto storico. Lo ha fatto Sokurov con il suo Francofonia, anch'esso alla Mostra, ma Gitai porta tutto a un gradino superiore: Rabin dura due ore e mezza, è un'opera monumentale e densissima, è puro cinema. Gitai riconosce il precedente di JFK - Un caso ancora aperto, opera con cui Oliver Stone disse la sua sull'attentato a Kennedy: "Stone invocò l'idea di una cospirazione, ma per me non ci fu cospirazione nella morte di Rabin. Era scritto, c'era un generale incitamento a destabilizzare il governo, ma siccome il primo ministro era una persona integerrima, hanno dovuto ucciderlo". "Rabin aveva grande carisma - continua - ma non un carisma dovuto all'arroganza, bensì alla sua semplicità. Viveva in un appartamento umile, era a contatto con l'uomo della strada e con la dimensione storica di Israele. Non volevo affidare il suo ruolo a un attore. Rabin è allo stesso tempo il centro del film e un buco nero, e così abbiamo lavorato intorno alla sua figura con grande lavoro di ricerca e scrittura".

Il pensiero, infine, va a un'attualità che non sembra destinata a tornare sui binari segnati dagli sforzi per la pace di Rabin e del suo vice Shimon Peres: "Israele non è un progetto religioso, è un progetto politico. Quando un progetto è politico, si deve cercare di adattarlo alla realtà. Quando è religioso, si finisce inevitabilmente a estremizzare tutto. Raccomando ai politici israeliani di rimanere all'interno del progetto politico e riconoscere i nostri vicini nel Medio Oriente, anziché ignorarli".
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