Biennale Venezia 2014
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99 Homes – La recensione da Venezia

Un film sulla crisi superficiale e scontato che nemmeno il carismatico Michael Shannon riesce a salvare

99 Homes

29.08.2014 - Autore: Marco Triolo, da Venezia
Un maldestro tentativo di parlare delle conseguenze della crisi nella società americana, 99 Homes finisce per essere più che altro un clone malriuscito di Wall Street e decine di altre storie “dalle stalle alle stelle” tipiche del cinema americano. Si prende un argomento di attualità semplificandolo, lo si declina in una storia di ascesa e conseguente caduta di un personaggio dapprima positivo e poi via via sempre più corrotto e si chiude infine con una facile morale buona per tutti, in cui il protagonista riacquista la sua umanità anche a caro prezzo (preferibilmente sacrificandosi).
 
Intendiamoci, non che la struttura sia un male di per sé, e infatti Oliver Stone ne aveva tratto un film epocale. Eppure, la si è vista talmente tanto che ormai ha ben poco da dire. E poi il regista Ramin Bahrani e lo sceneggiatore Amir Naderi la adottano in maniera così scontata da soffocare anche il pur minimo anelito di onestà del film.
 
99 Homes parte bene, infatti. Andrew Garfield è Dennis Nash, un operaio con un mutuo sulla casa che si ritrova sfrattato e deve badare al figlio e alla madre. Michael Shannon è Rick Carver, un impresario immobiliare senza scrupoli che si occupa di vendere le case pignorate dal governo e si intasca bei soldoni con diverse attività illecite. I loro destini si incrociano prima come nemici e poi come soci in affari in un giro losco di speculazione edilizia che arricchisce Dennis ma lo porta a vendere l’anima al diavolo. I loro duetti sostengono la prima parte del film: Shannon, in particolare, è una figura tanto negativa quanto carismatica, si mangia la scena ogni volta che appare e ricorda molto il Gordon Gekko di Michael Douglas. Poi qualcosa va storto.
 
Diamo uno sguardo ai due autori: Ramin Bahrani è americano, ma di genitori iraniani. Amir Naderi invece è iraniano di nascita. Da una tale collaborazione sarebbe lecito aspettarsi un ritratto inedito e più approfondito della società americana contemporanea, slegata dai soliti cliché e facili moralismi. Invece, i due cadono proprio in questa trappola: l’arco narrativo di Garfield è assurdo perché, nonostante passi da essere sfrattato a sfrattare la gente, non ne è certamente il responsabile, né lo possiamo definire un criminale. Esegue un lavoro, anche se ovviamente alcuni degli sfrattati se la prendono con lui perché è la prima faccia che vedono quando vengono costretti a lasciare la casa. Eppure, Dennis non dice la verità a sua madre e quando lei la scopre, in una scena melodrammatica che ha del ridicolo, reagisce come se il figlio trafficasse droga. Lui l’ha fatto per loro, perché erano al verde e doveva mettere un tetto sulle loro teste, ma non c’è verso.
 
C’è insomma una demonizzazione superficiale e pericolosa dei dipendenti pubblici mandati a fare un lavoro spiacevole ma necessario. Ambasciator non porta pena, si dice, ma sembra che Bahrani e Naderi non conoscano questa massima. Anzi: manipolano la storia per far passare i loro messaggi distorti, cioè la teoria secondo cui, in tempi difficili, homo homini lupus. Ecco che Shannon non solo fa quel brutto e antipatico lavoro, ma è anche un disgraziato corrotto e malvagio. Il finale, in cui Dennis è costretto a scegliere tra i soldi e la sua anima, lo si vede arrivare da chilometri di distanza e lascia totalmente freddi.
 
In un’epoca in cui gli ufficiali pubblici rischiano quotidianamente la vita e vengono ingiustamente perseguitati dal populismo più ignorante e qualunquista, 99 Homes è un film ingiustificabile e irresponsabile.

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